Questa mattina, in un luogo inevitabilmente… impenetrabile ai più, ovvero il carcere romano di Rebibbia e specificamente la Sala Teatro (che pure aveva ospitato il 18 e 19 aprile scorso gli “Stati Generali” promossi dal Ministero della Giustizia, di cui “Key4biz” ha scritto, si è tenuto un incontro seminariale di alto livello qualitativo e di seria capacità propositiva, promosso dall’eccellente associazione Antigone, che da oltre vent’anni si dedica in modo serio ed appassionato (e volontaristico) allo studio della dimensione carceraria italiana ed alla lotta per la tutela dei diritti ed il riscatto culturale e sociale delle persone detenute.
Il convegno “Libertà di parola. Il diritto delle persone detenute ad esprimere il proprio pensiero e ad essere informate”, patrocinato dal sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini (Usigrai) e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi), si è posto come “full immersion” (sei dense ore, senza pause di sorta) su tre tematiche correlate, come ha ben illustrato la Coordinatrice Nazionale di Antigone, Susanna Marietti: il racconto mediatico del carcere; il diritto delle persone detenute ad essere informati; il diritto delle persone detenute ad informare ed a esprimersi.
Oltre un centinaio di persone (tra le quali molti giovani giornalisti, ma va segnalato che l’iniziativa produceva anche “crediti” per le procedure di aggiornamento professionale imposte dall’Ordine) hanno assistito ad un seminario di gran qualità, per impostazione tecnica e pluralità di approcci: è emersa una fotografia sconfortante, da diversi punti di vista, perché il rapporto del sistema penitenziario italiano con la dimensione informativo-mediale mostra dinamiche deprimenti, indegne di un Paese (che vorrebbe essere) civile.
Si ricorda che, a fine marzo 2016, nelle 205 carceri italiane erano detenute 53.495 persone.
Basti pensare che – fatte salve rare eccezioni – la popolazione detenuta ha accesso sì alla televisione, ma non ad internet: vengono addotte motivazioni di “sicurezza”, allorquando le tecnologie attuali rendono possibile l’imposizione di filtri che potrebbero consentire alla polizia penitenziaria una vigilanza attiva nei flussi comunicazionali in entrata ed in uscita.
Per chi non ha dimestichezza con la dimensione carceraria, basti poi ricordare che un detenuto italiano ha diritto ad 1 telefonata una a settimana, della durata massima di 10 minuti dieci, e previa verifica che la conversazione avvenga con un numero corrispondente ad un telefono fisso ben rintracciabile. Anche in caso di malattia grave di un parente, per esempio, si deve rispettare questo assurdo limite quantitativo. Soltanto in alcuni carceri più evoluti, come a Padova, le telefonate son divenute 2 a settimana, ed il limite è quindi cresciuto a 20 minuti a settimana…
In taluni casi, è possibile utilizzare il web per inviare e ricevere email, ma incredibilmente ognuna di queste operazioni (invio e ricezione) viene fatta pagare al detenuto 0,50 euro…
Con il suo abituale fare da polemista, Luca Telese (conduttore di “Matrix” su Canale 5 dal settembre 2013) è intervenuto a gamba tesa nel dibattito, sostenendo a chiare lettere che, prima di affrontare le tematiche “alte” (la libertà di informazione e di espressione nel carcere, ovvero l’uso di internet in carcere…), lo Stato italiano dovrebbe intervenire per eliminare queste incredibili pratiche “basse”, che oscillano tra “il medioevale ed il folle”, e si pongono come violazione dei diritti di libertà, che – per quanto limitati – anche un detenuto deve poter esercitare.
Il convegno è stato aperto dai saluti del Direttore del Centro Circondariale “Rebibbia Nuovo Complesso” Mauro Mariani (dichiaratosi disponibile alla massima autocritica), ma va segnalato e lamentato che non è intervenuto nessuno in rappresentanza dell’amministrazione competente, ovvero il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria (il “Dap”), nonostante fosse annunciato il Capo Dipartimento Santi Consolo (autore di una controversa circolare del dicembre 2015 sull’uso di internet nelle carceri), e si attendesse comunque il Vice Capo del Dap Massimo De Pascalis (che è però dovuto correre in Sardegna per un’emergenza).
Questa assenza preoccupa un po’, ma è stata almeno in parte compensata dall’intervento, serio finanche serioso per quanto fugace, del Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Capo Gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà fino al giugno 2014, passato quattro mesi dopo al Pd, Sottosegretario da fine gennaio 2016), che ha ribadito l’intenzione del Governo di mettere in atto una moderna revisione delle politiche di esecuzione della pena (si attende che il Parlamento approvi una legge-delega), ed ha rivendicato il carattere innovativo della consultazione da poco conclusasi (gli “Stati Generali dell’Esecuzione Penale”, appunto), che va proprio nella direzione di una “apertura” della dimensione carceraria verso la risocializzazione.
Migliore ha sostenuto la necessità di usare la parola “detenuto” come aggettivo e non come sostantivo, e che anche gli operatori dell’informazione dovrebbero sempre utilizzare la formula “persona detenuta” (e non appunto “detenuto” soltanto), per enfatizzare che non si può ridurre l’umano in una interpretazione monodimensionale e transitoria (in effetti, il carcere è sì strumento di pena ed afflizione punitiva, ma dovrebbe essere anche di rigenerazione psico-morale, di riabilitazione culturale per un ritorno nella comunità sociale).
Migliore ha ricordato come la Corte Costituzionale sia più volte intervenuta per affermare il diritto delle persone detenute ad essere informate. Il Sottosegretario si è soffermato sulle recenti polemiche intorno al caso di Doina Matei, la ventenne che nell’aprile 2007, nella metropolitana di Roma, ha duramente litigato con la coetanea Vanessa Russo, colpendola all’occhio con la punta di un ombrello, e determinandone la morte; la giustizia ha accertato che si è trattato di omicidio non volontario, ma preterintenzionale (cioè causato da un atto che non intende causare la morte, ma va oltre le intenzioni dell’omicida), e la Matei è stata condannata definitivamente a 16 anni di carcere; dopo quasi 9 anni scontati in prigione, grazie alla buona condotta, aveva da poco tempo ottenuto dal giudice una misura alternativa al carcere, per i quasi 8 che le restavano da scontare; la Matei ha però commesso l’errore di usare uno di questi permessi per andare a Venezia, e per fare un bagno al Lido, e per sorridere davanti a un obiettivo; le sue foto, postate su Facebook, sono state pubblicate da alcuni giornali, e subito i “social network” si sono riempiti di indignazione, con invocazioni forcaiole da parte di esponenti della destra giustizialista.
Migliore ha sostenuto che queste dinamiche non depongono a favore di un modo serio ed equilibrato di fare informazione, e che la condannata Doina deve comunque però poter esercitare il “diritto a sorridere”, libera di postare quel che meglio ritiene su un “social network” (è questione semmai di sensibilità, non afferente all’esecuzione della pena). In ogni caso, va segnalato che, dopo la polemica, Doina Matei è stata riportata in carcere, dato che il magistrato le ha sospeso la semilibertà…
I lavori del convegno sono stati ben avviati dall’intervento accorato di un detenuto di Rebibbia, Marco Costantini, che lavora come redattore del “Giornale Radio dal Carcere Jailhouse Rock”, messo in onda da Radio Popolare e promosso giustappunto da Antigone, che ha raccontato episodi di piccole ma comunque gravi vessazioni subite ad opera di guardie carcerarie (per esempio, egli acquista ogni giorno molti quotidiani, ma un poliziotto un giorno glieli ha buttati via, sostenendo che erano troppi ed ingombravano la cella, facendo riferimento ad un articolo del vetusto regolamento carcerario che consente limiti discrezionali), ed ha rivendicato il diritto ad un accesso più agevole all’informazione e quindi ai media (internet in primis), sia in entrata sia in uscita.
Costantini ha segnalato come i quotidiani abbiano speso paginate intere sul caso del figlio di Riina intervistato da Vespa, e poche righe ad una notizia positiva, come la disponibilità di un centinaio di detenuti di Rebibbia a prestare lavori socialmente utili al Comune di Roma (come da recente accordo stipulato tra Dap e Roma Capitale nella persona del Prefetto Francesco Paolo Tronca). Il detenuto-giornalista (o giornalista-detenuto che sia) ha peraltro anche lamentato come oggi, a fronte di una popolazione carceraria di Rebibbia di ben 1.700 persone, fossero presenti in sala soltanto una sorta di “delegazione” di 40 detenuti soltanto (e pressoché nessuna detenuta di genere femminile). E certo il convegno non è stato reso accessibile con un sistema di televisione a circuito chiuso…
Il giovane accademico Dario Ippolito (docente di Filosofia del Diritto, Università Roma Tre) ha definito il carcere, in Italia, un “ripostiglio di pene pre-moderne”, un luogo di strumenti burocratici anacronistici, ed ha invocato la necessità di muoversi verso una nuova dimensione, “un carcere di diritto”, che tuteli il detenuto dall’arbitrio potestativo (esercitato dal direttore del carcere o dalla guardia di turno). Si debbono quindi definire in modo netto e soprattutto tassativo i diritti / doveri della persona detenuta, senza affidarne la gestione alla discrezionalità soggettiva – ovvero, spesso, “al buon cuore”… – dell’autorità preposta (si debbono eliminare le cosiddette “pene in bianco”).
Molto accurato l’intervento del professor Mauro Palma, da un paio di mesi Garante Nazionale delle Persone Private della Libertà Personale (istituto che proprio ieri 27 aprile è stato presentato alla stampa ed ai media, purtroppo nel disinteresse dei più), che ha segnalato come quasi sempre il diritto segua la realtà, e quindi finisca per “arrancare” nel tentativo di regolarla. Non si deve quindi nutrire “eccessiva fiducia” nelle norme, che “tardivamente arrancano rispetto ai processi sociali”. Ha ricordato che in Italia, fino al 1975, ai detenuti non fosse nemmeno concesso il diritto di parlare tra loro! Ha ribadito che l’utilizzazione di strumenti come Skype nelle comunicazioni tra i detenuti ed i familiari dovrebbe essere oggetto di concreta e diffusa applicazione, così come si debbono assolutamente promuovere pratiche di tele-medicina. In relazione ai media, Palma ha ricordato come siano ormai la cultura e le informazioni i “costruttori della realtà sociale”, ed ha sostenuto che il sistema penitenziario italiano “non deve aver paura delle tecnologie”. Criticando esplicitamente la “circolare Consolo” (la succitata del dicembre 2015, che intenderebbe regolare l’uso del web in carcere), ha sostenuto che essa è impostata proprio male: l’uso di internet in carcere (pur con tutti gli accorgimenti tecnici che prudenza detta) dovrebbe essere la regola e non l’eccezione.
Meritano di essere citati gli interventi di Ornella Favero (Direttrice della rivista e della newsletter quotidiana “Ristretti Orizzonti”, nonché Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia), che ha lamentato come gli “Stati Generali” promossi dal Ministero della Giustizia non abbiano previsto un “tavolo” di lavoro specificamente dedicato all’informazione ed ai media. Di fatto, l’odierna iniziativa di Antigone ha svolto una funzione di… supplenza. Favero si è soffermata sulle condizioni nelle quali sono costretti i 9.000 detenuti in regime di “alta sicurezza”, in particolare quelli sottoposti al cosiddetto “articolo 41-bis”: 1 colloquio uno al mese, di durata massima di 1 ora una, e contatti di non oltre 10 minuti con eventuali figli minori. Ha sostenuto Favero che “il tema della sicurezza è un colossale alibi”, ed ha lamentato come il Dap non sostenga le iniziative di attivismo informativo e giornalistico nelle carceri, mostrando piuttosto maggiore sensibilità nei confronti delle pur importanti attività teatrali (che verosimilmente fanno più “colore”, nel senso di notiziabilità positiva).
Mattia Motta, in rappresentanza del Presidente della Fnsi Beppe Giulietti, ha segnalato come una testata giornalistica carceraria di Vicenza, “Sosta Forzata”, sia stata costretta alla sospensione delle pubblicazioni, proprio a causa di quella “discrezionalità” dell’amministrazione penitenziaria da più voci denunciata per la sua eccessività (in assenza di norme chiare e regolamenti tassativi). Motta ha anche segnalato il ritardo che l’Italia mostra nella “regolazione” dei rapporti tra sistema dell’informazione ed “over-the-top”, questione delicata quanto cruciale.
Non è intervenuto il pur annunciato Presidente dell’Usigrai Vittorio Di Trapani, ma a nome del sindacato ha parlato Daniela De Robert (che è anche componente del Garante Nazionale), giornalista Rai, che ha segnalato la necessità di superare la abituale “reiterazione dei luoghi comuni” che caratterizza buona parte dell’informazione sul carcere, ed ha ricordato come una delle iniziative dell’Usigrai si intitoli proprio “illuminare le periferie”, intendendo con “periferie” tutte le aree del sociale rispetto alle quali l’attenzione dei media è purtroppo assai limitata e spesso distorta dal sensazionalismo.
Stefano Anastasia, Garante dei Diritti dei Detenuti dell’Umbria nonché Presidente Onorario di Antigone, ha anch’egli denunciato la gravità della “discrezionalità”: la funzione ri-educatrice e rigenerativa della pena è subordinata alla valutazione soggettiva dell’operatore. Ha ricordato scherzosamente come in Italia siano ormai soltanto i detenuti, di fatto, ad utilizzare… carta e penna e francobolli, per comunicare!
I lavori sono stati conclusi da Susanna Ripamonti (Direttrice della testata “Carte Bollate”, e promotrice della “Carta di Milano” sui diritti dei detenuti, un codice deontologico approvato nel marzo del 2013), che si è soffermata in particolare sul confine incerto tra “diritto all’oblio” (del condannato che ha espiato la propria pena) e “diritto di cronaca” (del giornalista).
Una giornata di lavori molto intensa, succosa, stimolante, peraltro caratterizzata dalla curiosa impossibilità di tutti i partecipanti ad utilizzare tecnologie telefonico-telematiche: tutti i cellulari sono stati infatti “sequestrati” all’ingresso e posti in buste sigillate e restituiti soltanto alla fuoriuscita dal carcere. Telese ha scherzato sul fatto che mai gli era capitato, nella sua vita personale e professionale, di restare isolato dal proprio “device” per sei ore di seguito…
Quel che ci ha sorpreso, di tutto il convegno, è stata la sconsolante debolezza dell’intervento del Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, il grillino Roberto Fico: anzitutto, si è dichiarato emozionato perché non aveva mai, prima di oggi, avuto la ventura di entrare in un carcere, e già questo – a parer nostro, e non per emulare la sensibilità storica del Partito Radicale e dei suoi deputati (quando ne aveva) in materia – non depone esattamente a favore di un rappresentante dell’italico Parlamento, che pure dovrebbe interessarsi anche di quel circa 1 per cento della popolazione che è in qualche modo… “ristretta”. Quel che ci ha impressionato è stata la sua moderatissima critica nei confronti della Rai, che pure resta il “convitato di pietra”, ovvero il grande assente di questo convegno.
Chi dovrebbe infatti promuovere un’informazione plurale e sensibile (anche) sulle tematiche carcerarie (e, più, in generale, rispetto a tutte le “minoranze”), se non il “public service broadcaster” in primis?!
Perché la Rai continua a mostrare invece un’enorme disattenzione rispetto a tutto quel che è “sociale”, dalle persone detenute agli immigrati passando per i diversamente abili, senza dimenticare le minoranze religiose e di gender?!
Perché l’infinita ricchezza del patrimonio sociale nazionale non è oggetto da parte di Viale Mazzini di adeguata attenzione, se non in rare occasioni e trasmissioni spesso emarginate (ci limitiamo a citare il caso sintomatico di un programma ben curato ed impegnato come “Crash – Contatto Impatto Convivenza” di Valeria Coiante, relegato nelle lande televisive periferiche di Rai Storia e quindi destinato a nanoshare)?!
Fico ha ricondotto tutto nell’economia capitalistica di una mercificazione globale del sistema dell’informazione, ed ha sostenuto – giustamente, ma con eccessiva delicatezza (anche considerando il ruolo istituzionale che gli è stato affidato ed il potere che potrebbe esercitare) – che Rai dovrebbe differenziarsi rispetto all’informazione “commerciale”.
Oh, perbacco! Presidente Fico, da cittadini, ci consenta: ancora una volta (vedi “Key4biz” del 9 gennaio 2015, “Il mistero del ‘contratto di servizio’ che Mise e Rai ‘si rifiutano di firmare’ (Fico dixit)”), la invitiamo simpaticamente a dimettersi dalla presidenza della Commissione, o, almeno, ad incatenarsi davanti ai cancelli di Viale Mazzini, anche alla luce dei risultati (fallimento totale) delle commendevoli battaglie da lei condotte per il famoso (ormai ridicolo) “contratto di servizio” Rai, che la Commissione da lei presieduta ha approvato nel maggio del 2014 (due anni fa!!!), e che è stato completamente ignorato da Stato e Viale Mazzini…
Non resta da augurarsi che eco del convegno odierno giunga anche alle orecchie dell’Amministratore Delegato Rai, Antonio Campo Dall’Orto, e possa stimolare in lui una riflessione sulla dimensione sociale dell’“azienda” Rai, che deve sì divenire “media company” competitiva, ma anche sviluppare al meglio l’anima giustappunto “sociale” della propria missione di servizio pubblico. Osserviamo purtroppo che, finora, è stata prestata tanta attenzione rispetto alla prima dimensione, e poca assai rispetto alla seconda.