Per evitare di restare imprigionati dai nostri stessi pregiudizi, questa mattina ci siamo sforzati e ci siamo affacciati alla presentazione romana dell’“Osservatorio Agenda Digitale” promosso dal Politecnico di Milano, intitolata “Agenda Digitale: niente più alibi”. Il titolo era ambizioso, senza dubbio.
I nostri pregiudizi – che in verità son giudizi – sono basati sulla perplessità maturata, nel corso degli anni, non soltanto rispetto allo specifico Osservatorio sull’Agenda Digitale, ma, più in generale, rispetto alla inflazione di “osservatori” che il Politecnico ha prodotto, che purtroppo non sempre brillano per qualità metodologica e talvolta sembrano divenire soprattutto delle “vetrine” per i “player” che co-finanziano le iniziative di ricerca.
L’edizione 2015 della ricerca propone un set di dati comunque utili, anche se non aggiunge nulla di nuovo a quel che si sa, acquisendo informazioni e statistiche da più fonti.
E la ritualità della presentazione ci ha confermato i dubbi maturati nel corso del tempo. Molto fumo, poco arrosto. Prevalenza di slang tecnicistico (che spesso si pone come cortina fumogena rispetto al deficit di contenuti sostanziali), molta autoreferenzialità (da parte dell’Agid così come dei “big player” imprenditoriali del sistema), poca (anzi quasi nulla) autocritica.
Crediamo che una parola basti per definire lo stato dell’agenda digitale italiana: disastro. Nessuno ha avuto però il coraggio di sostenerlo. Anche in questo caso, “il principe è nudo”, ma tutti si autoelogiano rispetto alla beltà dei propri vestiti (ovviamente il riferimento è alla bella fiaba di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”).
A conclusione di uno dei panel, il Presidente del Forum della Pubblica Amministrazione, Carlo Mochi Sismondi, ha raccontato un fatterello molto italico ed ha posto una polemica domanda ad Antonio Samaritani, Direttore Generale dell’Agenzia per l’Italia Digitale: “Episodio vero, ma, per pudore, non cito il luogo e le identità: ci sono due Asl, distanti pochi chilometri tra loro, che debbono acquistare un data center; entrambe procedono all’acquisto (con buona pace della spesa pubblica), allorquando un datacenter uno soltanto potrebbe bastare per la gestione dei flussi informativi delle due aziende sanitarie, e forse per quelle della Regione intera… Cosa può fare l’Agid, in un caso tipico come questo?!”, domanda Mochi Sismondi, riproponendo l’ennesimo caso di frammentazione delle competenze e dispersione delle risorse. E Samaritani: “nulla può l’Agenzia, ma potrei in futuro convincerli che non si tratta di una buona pratica…”. Ed il Presidente del Fpa ha commentato, con ironia: “prendiamo atto, l’Agid può agire sulla… moral suasion!”. Questo scambio di battute sintetizza – riteniamo – lo “stato dell’arte” dell’Agenda Digitale italica.
Ciliegina sulla torta, e conferma di quel che andiamo teorizzando (retorica a gogò, fuffologia intensa, bla-bla-bla narcisistico, conformismo conservativo, piccole lodevoli iniziative che fanno gridare al miracolo…), l’assegnazione alla Regione Lazio di un premio dell’Osservatorio del Politecnico per il portale “Open data”, di cui abbiamo già scritto su queste colonne (vedi “Roma Ladrona, il mondo di mezzo e l’opacità degli open data”, su “Key4biz” del 12 dicembre 2014): sostenevamo, in quell’occasione, “C’è un nesso fra lo scandalo dell’inchiesta ‘Mondo di Mezzo’ e la retorica della trasparenza digitale e degli open data”.
Rispetto all’operazione promossa dal Presidente Nicola Zingaretti, che è comunque commendevole, ci domandavamo come si potesse definire “open data” un sistema informativo che non consentiva – ed ancora oggi non consente – l’accesso “full text” alla fonte primaria di informazioni, ovvero allo strumento comunicazionale essenziale e fondamentale della Regione, intesa come “pubblica amministrazione” che produce giustappunto migliaia di atti “amministrativi”, parte dei quali è obbligatorio (e sui termini di questa “obbligatorietà” si potrebbe aprire altro dolente capitolo) rendere pubblici (pubblicandoli appunto) sul Bollettino Ufficiale della Regione.
Scrivevamo: “Un esempio per tutti, ben sintomatico del disastro attuale? Come è noto, le Regioni pubblicano gli atti cui sono tenuti a dare pubblicità sui propri “Bollettini Ufficiali” (cosiddetti “Bur”). Quello della Regione Lazio si chiama “Burl”, acronimo appunto di “Bollettino Ufficiale Regione Lazio”. La versione digitale è disponibile naturalmente sul sito web della Regione. Il motore interno di ricerca consente di effettuare ricognizioni sulle edizioni pubblicate dopo il 1° luglio 2012. Per quelle antecedenti, dal gennaio dell’anno 2000, la ricerca è possibile, ma indicando… il numero del bollettino, senza chance di effettuare ricerche sull’intero database: oh, perbacco! Ovviamente, richiedendo prima quel parametro di filtro, non è possibile effettuare una qualsivoglia ricerca “full text” (per esempio, per parola o nome: che so “cultura”, piuttosto che “cooperativa alfa”).
Perché l’Agid non impone (ovviamente usando lo strumento certamente coercitivo della “moral suasion”…) alle Regioni di mettere online gli archivi storici dei propri “bollettini regionali”, consentendo la ricerca “full text” dell’intero database, magari facendoli confluire in una piattaforma nazionale?! Questa iniziativa – semplice, non titanica – consentirebbe non soltanto alla… magistratura, ma agli operatori ed alla cittadinanza tutta di accedere ad un patrimonio informativo prezioso per tutta la collettività. E questa sì sarebbe una operazione radicale di… “open data”!