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Il futuro dell’Italia? Sospeso tra deficit di sovranità digitale e annosa carenza di politiche industriali

I primi computer commerciali sono stati venduti quasi settant’anni fa (nel 1951, per essere precisi) e dopo poco più di trenta anni (nel 1982) l’indicazione del personal computer come “Personaggio dell’anno” (sulla copertina del Time) sanciva la sua diffusione ed importanza.

Esattamente cinquant’anni fa, nel 1969, la “madre di Internet” (Arpanet) connetteva in rete i primi computer di poche università degli Stati Uniti e dopo circa 20 anni (nel 1988) la diffusione di uno dei primi virus (anche se nato per allertare sulle problematiche di sicurezza della rete) metteva in ginocchio un’ancora neonata “rete delle reti” ed i sistemi informatici ad essa connessi, illustrando come tale infrastruttura fosse al tempo stesso vulnerabile ed essenziale.

Altri trent’anni sono passati, e l’esplosione (questa sì virale) della tecnologia digitale è un fenomeno con cui tutti dobbiamo, volenti o nolenti, fare i conti.

La dimensione digitale è ormai sempre più intrecciata con le varie dimensioni sociali, che riguardano tutti i rapporti (economici, giuridici, culturali, …) che si stabiliscono tra un insieme di individui. Pertanto, il digitale definisce uno spazio sociale che, come ogni altro spazio sociale, può essere costruito secondo diverse visioni politiche. Nel mondo Stati differenti hanno sistemi sociali differenti, che rispecchiano generalmente nella loro nascita ed evoluzione il volere ed il sentire collettivo dei loro popoli.

È quindi, a mio avviso, del tutto naturale che anche nei confronti di questa dimensione digitale i governi e i politici vogliano attuare la loro attività di indirizzo e gestione. Non dobbiamo essere sorpresi e sconvolti di questa tendenza, perché le persone e le relazioni sociali sono sempre le stesse da millenni. Siamo fatti della stessa materia e siamo mossi dagli stessi desideri, aspirazioni, impulsi ed emozioni di quando abbiamo conquistato il linguaggio, circa centomila anni fa.

Dopo la severa, ma appropriata, regolamentazione introdotta nel maggio dell’anno scorso dall’Europa sui dati personali con il GDPR, nel febbraio di quest’anno l’India ha dichiarato molto chiaramente, nella bozza di politica nazionale per l’eCommerce, che «i dati di una nazione sono una risorsa collettiva, un bene nazionale» e che «l’India ed i suoi cittadini hanno un diritto di sovranità su tali dati, che non può essere esteso ai non indiani».

Forse in Italia qualcuno griderebbe al populismo, ma non credo certo che se volesse andare in India a sfruttare le loro risorse naturali potrebbe farlo senza dover rendere conto a nessuno.

Mentre la Cina – per una diversa storia politica – ha potuto mettere sotto controllo le sue frontiere digitali (cioè i punti di interscambio dove il traffico della rete entra ed esce da un paese o zona geografica) parallelamente alla diffusione di Internet, la Russia sta progettando di farlo adesso (anche se qualcuno lo racconta come se si volesse “staccare da Internet”).

Chiarisco subito che sono uno strenuo e convinto sostenitore della libertà di parola e sono assolutamente contro la censura che, attraverso il controllo di Internet, si esercita in Cina e potrebbe esercitarsi in Russia.

Anche qui però chi dovesse gridare allo scandalo dovrebbe rispondere alla domanda se sia possibile entrare senza farsi identificare con idonei documenti d’identità negli Stati Uniti, dove è nata Internet. Nel 2018 sono stato per lavoro sia negli USA (che visito con una certa regolarità) che in Russia, dove entravo per la prima volta. Secondo voi a quale frontiera mi hanno preso le impronte? Non a quella del paese (la Russia) che adesso vuole controllare le sue frontiere digitali.

Questi esempi confermano che lo spazio digitale è parte integrante della nostra realtà ed è quindi naturale gestirlo come ogni altra struttura sociale.

Cos’è necessario a questo scopo?

Serve controllare e governare infrastrutture digitali e dati digitali avendo a cuore prima di tutto il benessere del Paese e dei suoi cittadini.

I nostri “doppi digitali” sono come noi, sono esattamente noi: come chiameremmo quei governanti che vendessero i propri cittadini a poteri stranieri?

Non dobbiamo permettere che questo accada nella dimensione digitale.

Serve capire che lo spazio digitale, come le soluzioni ad esso connesse, vanno curati nell’interesse della Nazione e non di chi comunque ha riserve pressoché illimitate di risorse per ottenere sempre di più.

Abbiamo bisogno di una politica che ritorni ad esercitare per conto del popolo quella sovranità che l’Articolo 1 della nostra Costituzione gli assegna.

Serve un’azione strategica di lungo periodo per la “ricostruzione digitale”.

Ricordo che nel dopoguerra lo Stato attraverso l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) ha svolto un ruolo fondamentale per lo sviluppo del Paese. Il suo modello di partenariato pubblico-privato era ammirato in Europa come “terza via” per la crescita, tra mercato e nazionalizzazione.

In Italia temo che ancora non si sia ben capito bene il valore strategico dello spazio digitale, baloccandosi con aspetti operativi e trascurando di valorizzarlo ai fini dello sviluppo socio-economico del Paese.

Consideriamo ad esempio tre comparti strategici come Scuola, Pubblica Amministrazione e Industria.

Nella scuola italiana, in cinque anni di Piano Nazionale Scuola Digitale, si è promesso molto, speso abbastanza, ma realizzato molto poco – rispetto ai finanziamenti messi in gioco – in termini di avanzamento reale delle conoscenza informatiche da parte di studenti e insegnanti. Ancora non si è capito che la sola formazione sulle competenze operative non basta, forma solo operai digitali e non cittadini consapevoli e classe dirigente.

Nella Pubblica Amministrazione si continua a sostenere l’importanza della trasformazione digitale, ma senza comprendere che Generali senza adeguati Eserciti non possono nulla. E mentre sono sicuro che i “soldati digitali” escono ben formati dalle nostre scuole ed università, che preparano diplomati e laureati in informatica che si fanno onore dovunque nel mondo, ho qualche dubbio che la pubblica dirigenza sia generalmente in grado di capire l’importanza e le implicazioni di usare l’informatica nelle organizzazioni.

Nell’industria abbiamo ancora una carenza culturale che ha sempre frenato il sistema produttivo. Ma a ragion veduta. Il nostro tessuto industriale, fatto in larghissima maggioranza di micro, piccole e medie imprese, che ha fatto di creatività, flessibilità e velocità la chiave per arrivare, da Paese sconfitto e distrutto dopo la seconda guerra mondiale a settima potenza industriale al mondo, ha intuito (e sono stati bravi) che l’uso sistemi digitali rigidi li avrebbe zavorrati in modo intollerabile e ne sono stati alla larga. La spesa pubblica di Impresa 4.0 è certamente positiva, ma se usata per comprare soprattutto macchinari e soluzioni estere, è difficile che possa contribuire al rilancio del Paese.

Fino ad oggi la politica si è comportata, purtroppo, come descritto magistralmente qualche anno fa da Evgenij Morozov (uno dei sociologi più lucidi nell’analisi della società digitale) nel suo libro “I signori del silicio” «…per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia».

Invece si inseguono i termini alla moda (ieri il cloud e i big data, oggi l’intelligenza artificiale e la blockchain).

Si concedono finanziamenti e prestiti per l’acquisizione di sistemi digitali “chiavi in mano”, che dopo sei mesi o un anno richiedono spese non trascurabili di aggiornamento, invece che investire in modo intensivo sulla formazione di personale interno, che sia in grado di contribuire allo sviluppo di soluzioni digitali e farle evolvere in armonia con l’evoluzione degli scenari commerciali.

Stiamo parlando di elementi essenziali per rilanciare lo sviluppo economico del Paese, tanto più rilevante, quanto più nell’economia cresce il peso dei servizi. (Per non parlare poi del fatto che in alcuni settori strategici consegnare “le chiavi di casa” ad uno sconosciuto non è proprio la soluzione più intelligente!). Mentre nell’industria il costo degli impianti produttivi è una voce percentualmente significativa e direttamente proporzionale al volume della produzione, nell’erogazione di servizi digitali i “mezzi di produzione” necessari sono costituiti essenzialmente dal cervello delle persone e sono sostanzialmente indipendenti dal numero degli utenti. Piattaforme tipo Uber and AirBnb ne sono la prova più eclatante.

Ma i servizi realizzati mediante sistemi digitali permettono di ottenere flessibilità e velocità di adattamento a costi contenuti solo a condizione che si sia in grado di farli evolvere “in casa” o quasi. Solo così si riescono ad ottenere sistemi informatici in grado assicurare l’aumento di produttività delle aziende man mano che si evolvono. Per il nostro sistema produttivo, la sfida è su questo terreno, che non è un campo riservato solo ai “grandi”, visto che l’informatica – quando la si sa usare bene – permette di sfruttare vantaggiosamente anche nicchie di mercato molto piccole.

È necessario, accanto alla definizione di un modello di sviluppo pensato nell’interesse della crescita dell’intero Paese (come prima accennato), avviare un massiccio programma di supporto alla formazione dei lavoratori attivi, che non si limiti alle pur necessarie competenze digitali dell’utente finale, ma che dia loro gli strumenti concettuali e culturali necessari affinché il Sistema Italia sia competitivo in quest’ambito.

Gli USA lo hanno capito benissimo tanto da istituire l’anno scorso il “Consiglio Nazionale per il Lavoratore Americano” con l’obiettivo di migliorare istruzione e formazione professionale dei lavoratori per renderli competitivi in un’economia mondiale sempre più pervasa di digitale. Noi invece continuiamo a muoverci tanto, ma senza una strategia.

A chi giova non cambiare questo stato di cose?

Trovare le risposte da soli è il miglior esercizio che un cittadino che ha a cuore il futuro del suo Paese possa fare.

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