La rubrica CONSUMER FIRST ospita interventi di rappresentanti del mondo del consumerismo afferenti ad Euroconsumers, principale gruppo internazionale di Organizzazioni di consumatori che unisce Test-Aankoop/Test-Achats (Belgio), DECOProteste (Portogallo), OCU (Spagna), Proteste (Brasile) e Altroconsumo (Italia). La rubrica è curata da un Comitato Editoriale di Euroconsumers composto da Marco Pierani (Director Public Affairs and Media Relations), Els Bruggeman (Head of Policy and Enforcement), Luisa Crisigiovanni (Head of Fundraising Program & EU Projects Development) e Marco Scialdone (Head of Litigation & Academic Outreach). L’obiettivo è la presentazione di contenuti originali sui principali temi del mondo del consumerismo in ambito europeo e mondiale. Per leggere tutti gli articoli clicca qui.
Introduzione
Da qualche settimana gli utenti europei di Facebook ed Instagram si trovano davanti ad una scelta: continuare ad utilizzare gratuitamente i due social network prestando il consenso a ricevere pubblicità personalizzata, oppure sottoscrivere un abbonamento, senza inserzioni pubblicitarie, il cui costo è pari a 9,99 euro al mese sul web o 12,99 euro al mese sulle app iOS e Android.
La scelta operata da Meta è frutto, tra le altre cose, della sentenza della Corte di Giustizia UE, C-252/21 del 4 luglio 2023 (su cui avevo scritto su questa rivista, preannunciando un futuro a pagamento per molti servizi online), che aveva inibito a Meta l’uso di basi giuridiche differenti dal consenso dell’interessato per il targeted advertising, lasciando aperta la strada, in caso di rifiuto, ad un’alternativa equivalente, a fronte di un adeguato corrispettivo.
E’ ragionevole pensare che un simile modello di business sarà oggetto di scrutinio da parte dell’EDBP (come già preannunciato dalla DPA Norvegese. Qui trovate una mappa che ho elaborato per tenere traccia del posizionamento delle varie autorità nazionali per la protezione dei dati personali sul c.d. “pay or consent”) e della Corte di Giustizia. Tuttavia, esso può rappresentare da subito l’occasione per riflettere in modo più ampio sul futuro della pubblicità personalizzata.
Andare oltre la contrapposizione ideologica
La discussione sulla pubblicità personalizzata è stata spesso inquinata dall’approccio ideologico di chi ne ha fatto l’avamposto della società della sorveglianza: del resto, in fase di approvazione del Digital Services Act (DSA), non sono mancate proposte (poi non recepite) finalizzate ad introdurre un suo divieto generalizzato.
In verità, il DSA vieta alle piattaforme online la profilazione a fini pubblicitari unicamente quando si utilizzano le categorie speciali di dati personali di cui all’art. 9, par. 1, del GDPR o quando le piattaforme online siano consapevoli, con ragionevole certezza, che il destinatario del servizio è un minore: al di fuori di queste due ipotesi, la pubblicità personalizzata risulta lecita e compatibile con l’ordinamento comunitario.
Ciò, tuttavia, non esime dall’interrogarsi sui possibili miglioramenti che potrebbero essere introdotti per rendere il sistema maggiormente “sostenibile”. Per fare ciò è necessario, in primo luogo, distinguere le tre diverse forme di personalizzazione basate sui dati personali:
- Dati forniti dall’utente: questa forma di personalizzazione si basa su informazioni che l’utente fornisce volontariamente, ad esempio compilando un modulo di registrazione ad un servizio.
- Dati osservati: questa forma di personalizzazione si basa su informazioni che l’utente fornisce in modo indiretto, ad esempio utilizzando un social network ed interagendo con gli altri.
- Dati dedotti dal gestore della piattaforma: questa forma di personalizzazione si basa su informazioni che il gestore della piattaforma deduce dall’utilizzo che l’utente fa dei suoi servizi.
Verso una scelta più sostenibile?
Il mercato pubblicitario online si è sviluppato in un contesto di iper abbondanza di dati, fossero essi forniti, osservati o dedotti. Tuttavia, questa abbondanza non è necessariamente un bene.
Occorre usare meno dati per raggiungere il medesimo risultato: si può fare strutturando diversamente i servizi e rendendo palese il sinallagma tra dato fornito e servizio ricevuto, pretendendo al contempo una nuova consapevolezza del consumatore/utente nella condivisione delle proprie informazioni.
Più di un anno fa, quando la stragrande maggioranza dei quotidiani europei iniziò a subordinare l’accesso ai propri siti all’alternativa tra la sottoscrizione di un abbonamento oppure il consenso alla profilazione per fini pubblicitari, dissi che dovevamo essere grati all’industria editoriale: solo loro potevano permettersi una scelta così dirompente senza sollevare una reazione isterica sulla società della sorveglianza.
Quella scelta, che oggi riceve ben altra attenzione perché ad implementarla è un social network, ci ha ricordato che nulla è mai stato veramente gratis: abbiamo fruito per due decenni di servizi online, senza alcun esborso monetario, perché altri stavano pagando al posto nostro, ovverosia gli inserzionisti pubblicitari, e lo stavano facendo perché i nostri dati rappresentavano la garanzia per “consigli per gli acquisti” più efficaci che in passato.
Su questo occorre dire con molta chiarezza che c’è una enorme responsabilità degli utenti nel modo in cui, nello stesso arco temporale, hanno esposto pubblicamente elementi personalissimi della loro esistenza e chi scrive non può certo dirsi estraneo.
La nostra cassetta degli strumenti educativi e culturali è risultata alquanto sguarnita per affrontare la rivoluzione dell’allora web 2.0: nessuno di noi avrebbe urlato nella piazza del proprio quartiere le proprie patologie, le visite dallo psicologo, i propri stati depressivi, una gravidanza, una notte d’amore, la storia di un giorno, l’amore di una vita, la fine di un matrimonio, le medicine assunte, gli effetti collaterali, i suicidi pensati o tentati, i figli mostrati come trofei. Abbiamo urlato in mille piazze virtuali ogni aspetto più intimo della nostra esistenza: ci sono centinaia di persone che non ho mai incontrato, ma saprei dire dove vanno a scuola i loro figli, quali sport praticano, i loro voti a scuola, le volte che sono stati malati più o meno seriamente. Conosco fidanzamenti e separazioni, conosco gli sport praticati, conosco i luoghi abituali di vacanza. Conosco tutto. Ma non so chi siano queste persone.
Ci meravigliamo poi se queste informazioni siano state utilizzate per somministrare pubblicità e ci indigniamo pure, come se il problema fosse la pubblicità e non l’aver cancellato volontariamente ogni sfera di riservatezza.
Un movimento ambientalista dei dati personali
Abbiamo bisogno, allora, di un movimento ambientalista dei dati personali, che si impegni a promuoverne un uso più sostenibile, coinvolgendo consumatori ed aziende.
Gli utenti dovrebbero essere più consapevoli del valore dei propri dati personali e dovrebbero essere disposti a pagare un prezzo più alto per servizi che non ne comportano la condivisione. Le aziende, al contempo, dovrebbero strutturare i propri servizi in modo da ridurre la quantità di dati personali raccolti, ad esempio focalizzandosi sulle preferenze fornite dagli utenti in sede di iscrizione al servizio e rinnovate periodicamente ed obbligatoriamente in modo da garantire agli inserzionisti informazioni aggiornate su cui basare la loro attività pubblicitaria.
Nel Novembre 2001, presso la Duke University School of Law si tenne una conferenza che aveva quale tema centrale il “pubblico dominio”, ovverosia l’insieme delle opere dell’ingegno di carattere creativo che, spirata la tutela patrimoniale accordata ai rispettivi autori, entrano a far parte del materiale liberamente fruibile dalla collettività, senza che alcuna autorizzazione preventiva risulti più necessaria.
In quel contesto, Il Prof. James Boyle ricordò la sua proposta di “Cultural environmentalism”: il movimento ambientalista aveva “inventato” il concetto di ambiente e lo aveva utilizzato per collegare una serie di fenomeni che altrimenti sarebbero stati separati. Facendo ciò, aveva cambiato la percezione dell’ambiente nella collettività e aveva contribuito a formare coalizioni dove prima non esistevano. Boyle sosteneva la necessità di un analogo movimento anche nel mondo della proprietà intellettuale.
Prendendo a prestito tale idea, vorrei concludere dicendo che c’è più che mai l’esigenza di un “Data environmentalism”: dopo due decenni di sfrenato consumismo e massiccio sfruttamento dei dati personali, è tempo di transitare verso un loro consumo più sostenibile. A beneficiarne saranno la società tutta e anche le nostre vite private.