il commento

Il Fisco italiano si inventa i dazi sui dati

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Il Fisco italiano ha chiesto 887,6 milioni di euro di IVA non pagata a Facebook, 140 milioni a Linkedin, e 12,5 milioni a X di Elon Musk.

A furia di ripeterlo che i dati sono il nuovo petrolio, l’Agenzia delle entrate Italiana si è comportata di conseguenza, imponendo una rigida tassazione all’interscambio di informazioni fra utenti e piattaforme digitali. Una vera bomba nucleare per la Silicon Valley.

Quasi nell’indifferenza generale, se non per lo stupore dei più diretti interessati, il fisco ha trasformato  il filosofare degli esperti sulla natura pubblica o meno dei dati in tabelle contabili, dando un valore concreto a quelle identità accumulate nei data server dei grandi gruppi tecnologici ed ha chiesto 887,6 milioni di euro a Facebook, 140 milioni a Linkedin, e 12,5 a X di Elon Musk.

Ma più che l’entità delle cifre richieste, che, per quanto possano sembrare ingenti, rappresentano  comunque poca cosa rispetto ai faraonici fatturati di Big tech, quello che sembra scuotere dalle fondamenta l’intera economia digitale, qualora la richiesta del fisco italiano fosse riconosciuta dalla magistratura a cui si sono inevitabilmente rivolti i gruppi americani, riguarda la motivazione.

Per la prima volta un autorità amministrativa batte alla porta dei proprietari delle piattaforme colpendo al cuore il loro modello di business, ossia quel prodigioso gioco di illusionismo commerciale per cui la stratificazione di quantità enorme di informazione su gli utenti dei social diventavano oro puro, o meglio petrolio, per rimanere all’abusata metafora, che trasformava ogni strategia pubblicitaria in una conversazione diretta con ogni singolo navigante on line.

Un prodigio del tutto informale, non regolamentato, privo di qualsiasi riconoscimento, sia istituzionale che giuridico. Un meccanismo non dissimile da quel principio delle enclusure, che fra il XVII e il XVIII  vide la nobiltà inglese imporre il proprio diritto di proprietà sulle distese boschive della Gran Bretagna, fu l’atto, che secondo Carlo Marx diede forma al capitalismo moderno con la prima accumulazione fondiaria.

Oggi siamo dinanzi ad un’appropriazione ancora più pervasiva e, se possibile, ancora meno fondata. Proprio l’estrazione di informazioni individuali da ogni singolo utente, è il mattoncino su cui poggia  l’intero castello delle sfavillanti fortune delle compagnie digitali multinazionali.

Un primato che si regge su un’area grigia dell’economia in cui, senza che vi siano norme o principi acquisiti e condivisi, si trasformano impunemente i dati privati di miliardi di individui in profili commerciali, o in identità che poi diventano piste per comunicazioni altamente personalizzate, nel campo elettorale o sanitario.

Pensiamo, alle strategie di Facebook, che accumulando una stratificazione biblica dei dati di circa 2 miliardi di utenti, può identificare il senso comune di interi paesi o continenti; oppure valutiamo la personalizzazione delle risposte e delle inserzioni di Google, o ancora alle indicazioni commerciali di Amazon, o alle compilation musicali di Spotify, cosi aderenti ai nostri gusti, anche i più volubili.

Insomma tutto questo infinito circuito che ha soppiantato l’economia materiale, creando una tesaurizzazione senza precedenti, si sostiene sull’appropriazione dei dati degli utenti  che producono valore ma non pagano imposte.

L’Agenzia delle entrate italiane, senza perdersi in sottigliezze teoriche sulla proprietà del dato, ha riconosciuto un valore al suo utilizzo, concentrandosi sul valore commerciale dell’interscambio fra i servizi delle piattaforme e le informazioni che tutti noi cediamo operando su quelle infrastrutture, andrebbero rivisti tutti i modelli di business. Sia per la parte contabile e fiscale ma soprattutto perché quell’accumulazione di informazione dovrebbe essere formalizzato e reso trasparente e anche condiviso con gli stessi utenti.

Un principio per altro che era già stato riconosciuto valido qualche anno fa dalle autorità nazionali. Nel 2018 infatti prima l’ufficio dell’Antitrust e poi il consiglio di Stato imposero a Facebook di eliminare dalla sua campagna promozionale la dizione “servizio gratuito”. Infatti, si sostenne allora, proprio i dati identificativi di ogni utente rendeva evidente lo scambio che si attivava.

Un principio che costringerebbe l’intero sistema economico digitale ad aggiornare comportamenti e struttura operativa.Non solo i grandi social sarebbero coinvolti, ma anche, ad esempio, le piattaforme di tv streaming, come Netflix o Amazon, che estraggono dai dati degli utenti indicazioni preziosissime per ridurre gli sprechi della distribuzione e poter poi produrre film o serie sempre aderenti ai gusti più intimi degli spettatori, e poi le stesse imprese dell’intelligenza artificiale che sulla base delle identità dei clienti europei aggiornano e territorializzano le loro applicazioni.

E scendendo giu pe li rami, la valanga fiscale raggiungerebbe anche le strategie di marketing di catene commerciali o singole attività professionali anche in Italia, dove ormai soggetti di una dimensione economica limitata  si basano ormai esclusivamente sulla possibilità di raccogliere ed elaborare le identità dei propri utenti.

Un terremoto  che  sicuramente renderà incandescente le già surriscaldate relazione fra Europa e casa Bianca che interpreterà questa decisione del fisco italiano come una ritorsione nella cosiddetta guerra dei dazi. I dati, dice già qualcuno, potrebbero essere il corrispettivo dei dazi usati come una clava da Trump. Ma paradossalmente proprio l’irrinunciabilità ad avvalersi di una tale materia prima, come le informazioni profilanti di una platea cosi pregiata quale i circa 700 milioni di europei agiati potrebbe portare tutti a più miti consigli. Forse.

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