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Il dibattito su Paolo Grassi e il varo della Terza Rete Tv della Rai

Mi è stata assegnata – in questa parte conclusiva di “testimonianze” – una tematica difficile e politicamente complicata. Quella del varo della “terza rete televisiva della Rai” che avvenne durante la presidenza di Grassi (1977-1980), periodo nel quale fui alla Rai il suo assistente. Tenterò di spiegare tanto il successo quanto il conflitto che fanno parte di quella storia. Che forse fu anche la storia che incentivò la malattia di Paolo Grassi, che aveva problemi cardiaci, tanto che la scomparsa avvenne ad una età così precoce solo l’anno dopo. 

Parto da lui per poi esporre i fatti.

La mitologia di Paolo Grassi si costruisce a Milano. E nella cultura del teatro. 

Sia pure con la versatilità di un operatore sfaccettato: giornalista, editore, scrittore, regista, promoter, con passione politica e civile.

Nel 2017– nel quadro dei 70 anni della fondazione del Piccolo Teatro – abbiamo fatto (quando molti di noi – tra cui Ferruccio de Bortoli, Carlo Tognoli, Davide Rampello, io stesso – si sono improvvisati attori, salendo su un palchetto nel cortile di Via Rovello, interpretando pagine di scritture o brani di lettere) un viaggio nell’agenda di Paolo dal giorno della Liberazione al giorno della fondazione del Piccolo. Dentro ci stava tutta l’epopea di questa milanesità, di questo municipalismo, di questo sfrenato senso del “fare” sorretto tuttavia da un pensiero e da una strategia. Soprattutto di questo dialogo con tutte le componenti di ciò che Grassi considerava oggetto e soggetto centrale: il pubblico. Come parti di questo convegno hanno ben descritto.

Un dialogo che si svolgeva in sintonia con un altro dialogo, meno visibile ma sostanziale: quello con la politica e con le istituzioni. Dialogo tribolato, acceso, ma sostanzialmente sinergico. 

Poi arriveranno le consacrazioni, l’internazionalizzazione, le grandi produzioni. E poi arriverà la Scala, teatro milanese per eccellenza. 

Ecco, faccio sintesi così in poche battute circa la formazione vorrei dire antropologica di un uomo con i piedi nel Novecento, gli occhi al futuro e il cuore tra la sua gente. 

Questo per dire che il Paolo Grassi “consacrato”, che il Partito Socialista italiano (già il milanese Bettino Craxi alla guida, con Claudio Martelli, milanese, al timone della politica per la cultura) sceglie nel 1977 per la presidenza della Rai, a Roma, ripropone un “film” che aveva già avuto una anticipazione qualche anno prima. Quando sempre i socialisti lo indicano per la pur alta posizione di vicedirettore generale della Rai, nel coordinamento della radiofonia. Ho fatto un cenno nei saluti introduttivi del convegno. 

La Milano di Carlo Tognoli sindaco è divisa tra l’orgoglio della rappresentanza e la percezione della distanza irreparabile tra la città e la capitale (allora sei ore di treno per il viaggio e sette ore d’auto casa-casa). Appelli contro la partenza di Paolo Grassi, movimento di passaparola contro questa separazione, accorate lettere al Comune perché si desista dal proposito. E Grassi – che era nel pieno delle sue polemiche sindacali sulla Scala – forse avrebbe gradito, al momento, quella via di uscita.  Alla fine, la Milano autosufficiente – a cui evidentemente importa poco la colonizzazione politica e culturale dell’Italia – vince la battaglia. Grassi resta e incassa la cambiale popolare civica

Senza riprendere questo episodio non si potrebbe raccontare l’episodio di qualche anno dopo, di Grassi insediato presidente a Viale Mazzini con un altro milanese (pur molto romanizzato) scelto dalla DC come direttore generale della Rai, Pino Glisenti

Grassi a capo di un consiglio di amministrazione con nomi culturalmente altisonanti (Paolo Volponi, Elena Croce, Nicolò Lipari, Walter Pedullà, Enzo Cheli, eccetera). Qui – nel nostro convegno – limitiamo il ricordo di quell’intenso triennio al varo che quel Consiglio d’Amministrazione fece, in mezzo a dibattiti accesi e polemici, della terza rete televisiva. A completamento di una riforma normata nel 1975, ma anche nel quadro di un rapporto tra le maggiori forze politiche in cui si era già innestato un cambio di verso: dalla omologazione dei maggiori partiti in una intesa di “unità costituzionale” per l’uscita dagli anni del terrorismo e della grave inflazione a una democrazia più concorrenziale, messa in moto dalla svolta del PSI nel 1976 per aprire più rivalità politica con la DC e più rivalità ideologica con il Partito Comunista. Insomma una dialettica tra due storie che costituirà lo spartito della difficoltà e della complessità proprio riguardante il varo di quella terza rete (che per chi sosteneva al tempo che 2+2 fa 4 – non tutti, comunque – significava un esito probabile, essendo che la rete 1 era a guida democristiana e la rete 2 era a guida socialista).

La costruzione “politica” della Terza Rete 

La costruzione “politica”, organizzativa e infrastrutturale della terza rete televisiva della Rai, compiuta nel 1979, fu il frutto, come accennato, di due politiche generali (in Italia e di riflesso sul sistema televisivo pubblico) che avevano punti in comune e punti di progressivo conflitto.

Nel frattempo il Consiglio di Amministrazione della RAI passava dalla guida del socialista pugliese Beniamino Finocchiaro, collocato nel PSI come “manciniano”, alla guida del socialista Paolo Grassi, ambro-pugliese, meno connesso alla vita interna di partito e di tendenza nenniana “prima maniera”, ovvero di spontanea relazione con i comunisti. Penso che Finocchiaro sarebbe stato più adatto ad interpretare la seconda parte di quello schema e Grassi invece la prima parte di quello schema. È questo spiega perché il varo della terza rete, nella discussione tra il 1977 e il 1979, fu un grumo difficile anche nei rapporti tra Paolo Grassi e i socialisti. 

Grassi conseguì comunque il successo di arrivare a decisione, cosa che appariva obiettivo molto difficile, nel quadro di una convegnistica pressante e bollente. 

Ma lo spostamento del confine di quella rete rispetto alle altre un po’ troppo ravvicinato al profilo e al perimetro delle altre due, lo portò parimenti ad una sorta di rottura, pur se velata, con il gruppo dirigente socialista, rispetto a cui lo stesso socialista milanese Martelli (che aveva portato Grassi alla presidenza) o l’ex-sindaco socialista milanese Aldo Aniasi (suo dichiarato amico), non riuscirono a frenare lo scontento e il dissenso in via del Corso

Quanto ai contenuti – sia giornalistici che dei programmi di rete – essi contavano su risorse in quella fase limitate. E su figure non diciamo di secondo piano, ma la cui competenza rispetto al nuovo prodotto doveva ancora dimostrarsi pienamente. Ma questo argomento, di cui Grassi aveva coscienza, che aveva un rilievo non formale ma sostanziale, non riuscì a modificare quel dissenso politico. La vicenda Rai3 contiene poi molti altri risvolti, ma quello che mise i nervi politici della Rai più allo scoperto è quello descritto.

Due parole, comunque, sui nodi di quel dibattito. Una terza rete televisiva perfettamente omologata alle altre avrebbe avuto stesso potenziale peso di programmazione, stessa tipologia di format e di organizzazione del palinsesto, stesso peso nella distribuzione del budget e nel potere di utilizzo dei mezzi di produzione e delle tecnologie. E alla fine stessi diritti in materia di personale. 

Il nodo specifico dell’informazione territoriale e delle sedi regionali

Unica evidente differenza, il canale di informazione che era in ticket con quella rete: dovendo qui la Rai farsi carico della crescita di importanza – consacrata dalla legge di riforma – del territorio e quindi delle sedi regionali, con l’avvio di telegiornali a scala regionale. Una cosa di grande importanza per gli interessi dei territori ma anche certamente per il sistema politico-elettorale italiano strutturato territorialmente. 

L’unica via che si presentava a chi avrebbe voluto – in un quadro politico, va ricordato, in cui la caduta del muro di Berlino sarebbe arrivata dieci anni dopo – limitare il “peso” della probabile assegnazione politica della rete a figure riferite al Partito Comunista (seconda forza politica nazionale al tempo in crescita) era quella di caricare la valenza culturale ed educativa dei contenuti. Quindi più “dimensione” di servizio pubblico e meno televisione di larghi ascolti – per dirla con semplicità – tesi che vedeva il Partito Socialista proponente, il Partito Comunista contrario e la DC divisa a metà; quella più anticomunista a favore, quella più filocomunista contraria. Tutta la fascinazione per la cultura e per la priorità della dimensione di “servizio pubblico”, tematiche care alla sinistra, su questo punto attenuavano l’enfasi, visto che c’era di mezzo un futuro di posti, poteri e influenze già misurabili in termini di ascolti.

Il punto di compromesso – abilità di quel Consiglio d’Amministrazione averlo immaginato e reso praticabile – riguardò alcuni punti: la perfetta zebratura politica dei vertici della rete; l’attenuazione di una piena omologazione dei programmi (dunque un carattere cultural-educativo formalmente dichiarato – e questo aspetto invece Grassi lo condivideva senza infingimenti –  poi di fatto affidato alla mediazione professionale) e infine una certa riduzione di mezzi ancorata ai tempi di piena copertura nazionale del segnale che avrebbe avuto un decorso negli anni. 

Così la rete partì

E alla sua guida non arrivò un dirigente di formazione comunista (che sarà poi in tempo due, ma ben otto anni dopo, Angelo Guglielmi) ma un democristiano caratterizzato per avere diretto il Dipartimento educativo, al tempo di area forlaniana-fanfaniana, di radici ebraiche livornesi, iscritto alla DC il giorno dopo le elezioni fatidiche del ’48, storico di professione, di una consumata capacità relazionale un po’ con tutti; brusco, pragmatico, sostanzialmente flessibile: Giuseppe Rossini

Con questa realizzazione – comunque importante per la determinazione di una Rai più italiana che romana – si chiudono gli anni Settanta e ci si avvicina alla rivoluzione di sistema che, con l’inizio degli anni Ottanta, prende forma. 

Il limite del gruppo dirigente che la concepì e la attuò – e questo era di quasi tutti e certamente anche di Paolo Grassi – fu non di non potere o riuscire a lanciare uno sguardo davvero lungo su quel sistema, che da lì a breve non avrebbe più posto i problemi di riforma e di cambiamento dentro il quadro della Rai stessa, da articolare, disarticolare, distinguere, eccetera. Ma dentro un quadro in cui nel giro di poco tempo soggetto pubblico e soggetti privati avrebbero trovato equilibri allora non immaginabili.

Nel ricordo di chi parla – allora trentenne, di provenienza non solo milanese ma anche con esperienze legate alla cultura di impresa, che Paolo Grassi aveva scelto per rapporti di famiglia come suo assistente proprio per i rapporti istituzionali – il sentimento interno del grosso dei dirigenti e degli operatori della Rai era di un convincimento diffuso che gli equilibri che sarebbero sorti armonizzando in forma paritaria pubblico e privato avrebbero travolto la qualità e il ruolo del rapporto tra la Rai e il fare radio e televisione. Era difficile sostenere con loro (anche se qualcuno vedeva questo spiraglio) che confrontarsi con l’insorgente privato avrebbe anche cambiato la mentalità e l’efficienza di un management che doveva essere “pubblico” ma non “burocratico”. 

Non c’è dubbio che il leader di quel sentimento preoccupato e di difesa era, al tempo, Paolo Grassi. 

Il quale, per manifestare questo pensiero – a volte anche in modo marcato e ostinato (ricordo un’intervista politicamente destabilizzante, proprio in materia di Rai3,   che fece in macchina di fronte alle orecchie esterrefatte di Enzo Cheli e mie, rilasciata alla Stampa mentre Claudio Martelli apriva il convegno del Parco dei Principi su “Informazione e potere” paradigma di cose giuste dette in una fase politica in cui la “sinistra al passato prossimo” non seppe e non volle capire –  incrinò il suo rapporto politico con il partito che lo aveva espresso, procurandogli, posso dire con certezza, il grave dolore della pur evidente non rielezione. 

Diciamo, per fare una conclusione semplice, che in questa vicenda sarebbe stato possibile cogliere unmagnifico punto di equilibrio, nonostante ormai si fosse incrinato il rapporto con il partito. Qui ha giocato molto il suo temperamento: avrebbe potuto prendere questa via d’uscita (che lui stesso impersonò) senza dover per forza sembrare l’uomo che sosteneva la causa avversa. Ma alla fine non riuscì ad avere il consenso per la continuità di quel mandato in cui lui tutto sommato però sperava. 

Con un’eleganza straordinaria, il giorno in cui fu evidente che non avrebbe avuto la continuità di mandato, mi chiamò e mi disse: 

Tu capisci che uno come me deve avere casa a Londra grande città di teatro. Uno come me, diciamo, la casa a Milano ce l’ha, ma deve avere anche casa a Roma. E comunque ha anche quelle ad Arenzano e a Martina Franca. Non parliamo di Venezia. Così come vorrei anche avere casa a Parigi. Ma come cavolo faccio a pagare tutte queste case adesso?”

Capii che era davvero un grand’uomo. Incurante per una vita di tanti aspetti di vita pratica, in quel momento ironizzava sulla sua condizione di prossimo disoccupato.

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