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Il Co-Living 2.0: verso nuovi modelli di abitare, nel post-Covid

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Già prima della pandemia era chiaro che fosse matura la possibilità di una trasformazione del coliving, con la nascita di iniziative come il co-living 2.0 e il co-living hotel brand. Vediamo dunque di cosa si tratta,

In questi mesi di lockdown e di smart working forzato per tanti, molte persone hanno vissuto un’esperienza senza precedenti, trovandosi a lavorare – o studiare – da casa, con parenti o coinquilini presenti contemporaneamente negli stessi spazi.

Le condizioni di convivenza sono cambiate molto e rapidamente rispetto a pochi mesi fa, quando i lavoratori andavano in ufficio (e gli studenti in aula) trovandosi a condividere effettivamente gli spazi solo la sera al rientro a casa. Questo cambiamento nelle abitudini di vita ha comportato la diffusione della consapevolezza che la casa non può più essere solo uno spazio in cui passare il tempo che intercorre tra la fine della giornata lavorativa e l’inizio della seguente ma che, anzi, deve essere un luogo dove poter anche svolgere le proprie attività a 360°, nella massima serenità ed autonomia. Anche per quanto riguarda l’abitare, dunque, il COVID ci obbliga a rivedere i nostri modelli, mettendo al centro la sostenibilità (della vita) e le nuove logiche di produttività.

Il Co-Living 2.0

Cosa comporta sul piano delle logiche di convivenza in generale ed in particolare per il co-living, modello che negli ultimi anni ha preso piede a livello globale, sbarcando anche in Italia attraverso startup come ad esempio “Dove Vivo”? Sicuramente, alcuni modelli di co-living come quello del cosiddetto “micro-living” – con spazi privati ridottissimi – hanno perso la loro attrattiva. Bisognerà pensare ad altre modalità di condivisione che siano innovative, sostenibili, e che operino in sicurezza.

Già prima della pandemia era chiaro che fosse matura la possibilità di una trasformazione del coliving, con la nascita di iniziative come il co-living 2.0 e il co-living hotel brand. Vediamo dunque di cosa si tratta, e cerchiamo di comprendere se, nella società post-Covid che abbiamo davanti, ci potrà essere spazio anche in Europa per nuove logiche abitative di questo tipo.

Se il co-living 1.0 costituiva la soluzione ideale per creare una comunità (composta specialmente da universitari o da lavoratori fuori sede) distribuita in micro-spaces, con cucine condivise e aree comuni ampie, il co-living 2.0 si indirizza invece ad un target diverso (over 30 e tendenzialmente più benestante) che, oltre al senso di comunità, conferisce molto valore anche al concetto di privacy e alle caratteristiche di colui col quale si trovano a condividere alcuni dei suoi spazi.

Il profilo ideale

Il cliente ideale del co-living 2.0 è dunque un giovane, ma non più giovanissimo, che in molti casi ha vissuto in più città e, quando sbarca in una località nuova, cerca un luogo dove vivere che gli trasmetta anche un senso di comunità. Il co-liver 2.0 non cerca necessariamente un appartamento da dividere con uno sconosciuto. Anzi, questo target spesso vuole un appartamento di alta qualità nel quale vivere da solo, ma è disposto a pagare di più per uno spazio ridotto al quale vengano associati ogni genere di servizi oltre al network di cui parlavamo prima.

Un ottimo esempio di questo modello è l’americana Node, che in questi anni ha costruito un network di strutture residenziali volte a costruire una comunità globale basata anche sulla tecnologia. Gli immobili di Node sono curati nel minimo dettaglio ed ogni appartamento è personalizzabile secondo i gusti dell’inquilino. Ogni loro fabbisogno viene gestito attraverso l’app per residenti: dal controllo dell’accesso alle consegne, dalla manutenzione ed i servizi supplementari come la tintoria o il dog walking ai pagamenti, con l’aggiunta della gestione dei gruppi di messaggistica interna che sono strutturati su livelli diversi in base alla dimensione globale o locale della comunità.

Poi ci sono i co-living hotel brand, gestiti in maniera professionale con benefit e servizi come quelli degli hotel in aggiunta ai comfort della sistemazione: il target è ovviamente diverso dal co-living classico, essendo indirizzato a coloro che intendono soggiornarvi, solitamente per motivi di lavoro, per periodi più brevi.

Questo tipo di coliving nei mesi pre covid si è diffuso soprattutto in paesi asiatici economicamente dinamici come Singapore. Per esempio, il Katrina Group ha aperto proprio l’anno scorso a Singapore l’ST Signature Chinatown con le sue 40 camere “progettate in modo intelligente”[1] a forma di S ad incastro, abbastanza spaziose da essere confortevoli e tuttavia abbastanza compatte da ridurre l’emissione di Co2.

Co-working e smart working

Il design è studiato anche per offrire spazi adatti per il co-working e il networking. ST Signature Chinatown è poi anche dotato di una tecnologia Chat-In intelligente proprietaria con un host virtuale per fornire servizi di concierge. Essa consente inoltre di effettuare il check-in e il check-out in modo efficiente, di comunicare online con gli altri ospiti senza rivelare informazioni personali e di acquistare biglietti elettronici per le attrazioni turistiche.

Queste erano le tendenze del coliving nei mesi prima dell’inizio della pandemia. Adesso cosa succederà al mercato? È difficile fare previsioni al momento. Se da un lato si auspica e ci si aspetta che, finita la pandemia, molte cose torneranno alla normalità, alcuni aspetti delle nostre vite, di come lavoriamo e di come percepiamo gli spazi che utilizziamo non saranno più come prima.

Non credo che il COVID segnerà la fine delle città come fulcro della società e dell’economia, come non credo che il lavoro da remoto possa sostituire la condivisione in presenza. Ritengo che la pandemia ci lascerà in eredità la volontà di essere più efficienti e più flessibili, il che aprirà nuove opportunità di delocalizzazione, ad esempio, o di lavoro smart nel vero senso della parola: lavoro intelligente. Per quanto riguarda il co-living, la situazione attuale probabilmente accelererà il declino inevitabile del modello 1.0. Credo, invece, che il modello 2.0, potrà avere un forte impeto dovuto al fatto che, dovendo potenzialmente passare più tempo in casa, è sicuramente più appetibile farlo con a disposizione tutti i servizi di cui si ha bisogno per vivere e lavorare in maniera agevole.

A prescindere dallo specifico modello, che sia una variante del co-living oppure una semplice convivenza tra amici o parenti, è chiaro che saranno premianti condizioni di vivibilità sostenibile, divisione ottimizzata degli spazi e anche (soprattutto) un’infrastruttura tecnologica che consenta di guardare quando necessario al lavoro da casa come a un’opportunità pienamente equivalente al lavoro in ufficio.


[1] https://www.straitstimes.com/business/property/new-co-living-hotel-opens-in-chinatown-with-room-rates-from-60-to-200-per-night

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