È curioso: una simile provocazione avrebbe dovuto scatenare un dibattito, ed invece s’è registrata soltanto una reazione piccata della più potente lobby del cinema italiano… Ieri l’altro, domenica 27 novembre, il dorso romano del quotidiano “Corriere della Sera” ha pubblicato un editoriale firmato da Valerio Cappelli, incentrato su un’intervista – tra gli altri – ad uno dei più famosi ed apprezzati registi italiani, qual è Carlo Verdone, intitolata “Film scritti in 7 giorni, ecco il risultato”, nella quale l’assetto attuale dell’intervento pubblico nel settore cinematografico viene contestato duramente.
In sintesi, questa la tesi: il meccanismo di sgravi fiscali a favore del settore – ovvero il tanto decantato “tax credit” – ha determinato un’inflazione produttiva fine a sé stessa, un sistema perverso che soprattutto alimenta i conti correnti di imprenditori che sarebbero più affaristi senza scrupoli che imprenditori culturali.
La notizia merita attenzione perché questa volta non è un avvocato “dissidente” a sostenere che “il sistema” in essere è malato: in effetti, da anni, una delle rare (rarissime) voci fuori dal coro è rappresentata dall’avvocato Michele Lo Foco, che ha pubblicato venerdì scorso 25 novembre (alla vigilia delle “Giornate Professionali del Cinema” di Sorrento, il meeting autunnale promosso da Anec ed Anica, dal 28 novembre al 1° dicembre), sulle colonne della testata specializzata “Odeon / HiTech” (diretta da Angelo Frigerio), un articolo dal titolo inequivocabile: “Così il Tax Credit ha ucciso il cinema italiano”.
Esiste senza dubbio una qual certa convergenza tra le tesi di Carlo Verdone e quelle di Michele Lo Foco.
Si ricordi che un segnale di allarme è stato lanciato settimane fa dal Direttore della Mostra del Cinema di Venezia Alberto Barbera che, provocando un qual certo scandalo nei benpensanti, dichiarò che in Italia “si produce troppo, per prendere finanziamenti, e con poca qualità”. La dichiarazione ha smosso le acque per qualche giorno, ma nessuna reazione concreta. Più recentemente il Presidente della Fondazione Cinema per Roma (alias la Festa del Cinema di Roma) Gian Luca Farinelli ha sostenuto “lo stato di salute del cinema italiano è ottimo, mai stato così plurale il nostro cinema. Magari poi si produce troppo, ma certo stiamo vivendo un momento straordinario”. Chi ha ragione, tra i due?!
Chi cura per “Key4biz” questa rubrica IsICult intitolata “ilprincipenudo”, ha manifestato, e da anni, alcune perplessità sulla “legge Franceschini” e sui decreti di attuazione, e resta convinto che non sia ancora sufficiente il dataset proposto dalla “valutazione di impatto” previsto dalla legge stessa: senza dubbio, nelle sue ultime tre edizioni, la ricognizione che la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo (guidata da Nicola Borrelli) ha affidato all’Università Cattolica in partnership con Ptsclas spa ha registrato un progressivo miglioramento qualitativo nelle metodologie, ma restiamo convinti che pecchi ancora di deficit di approccio critico e sistemico (vedi, su questi temi, da ultimo, su “Key4biz” del 10 marzo 2022, “Salto di qualità della Direzione Cinema e Audiovisivo del Mic: online il nuovo sito web”).
Non è possibile ancora comprendere se lo stato di salute complessivo del sistema audiovisivo italiano è buono o meno: mancano ancora dati essenziali ed analisi adeguate
Per esempio, Cappelli, nel suo articolo di sabato sul “Corriere” propone alcuni dati, di cui non cita la fonte: in Italia nel 2021 i film prodotti sarebbero stati ben 328, e nelle sale ne sono usciti 156. Dando per buoni questi numeri citati da Cappelli, sarebbe interessante verificare che vitalità hanno avuto nelle sale i 156 che sarebbero stati proiettati da un qualche cinematografo: in quante copie sono stati distribuiti (titolo per titolo)? Che tenitura temporale hanno avuto (titolo per titolo)?!
Senza dubbio sia la Società Italiana degli Autori ed Editori (Siae) sia la società che gestisce il monitoraggio degli incassi ovvero Cinetel srl (controllata pariteticamente da Anica ed Anec) dispone di questi dati, ma non ci risulta che nessuno abbia (almeno pubblicamente) richiesto e prodotto elaborazioni di questo tipo. Nel suo report dedicato all’anno 2021, Cinetel segnala che i film “italiani” usciti in sala nel 2021 – le cosiddette “nuove uscite” – sarebbero 144 (a fronte dei 118 dell’anno 2020), rispetto a un totale di opere distribuite “theatrical” di 353 titoli (144 italiani, 75 Usa, 36 Francia, 14 Regno Unito, 14 “coproduzione”, 7 Germania, 6 Spagna, 6 Australia…).
Insomma, le elaborazioni (le uniche) che potrebbero consentire di acquisire finalmente una visione d’insieme chiara e trasparente del mercato cinematografico italiano non sono ancora incredibilmente disponibili. Segreti industriali? Cortina fumogena?!
Chi ha interesse a mantenere questa cortina di fumo sul funzionamento complessivo del sistema audiovisivo italiano?! La risposta è semplice: anzitutto coloro che ne sono i primi beneficiari.
Francesco Rutelli (Presidente Anica): “l’audiovisivo viaggia a gonfie vele”
Si ha riprova di questo deficit cognitivo dalla risposta, piuttosto piccata, dell’Anica all’articolo di Valerio Cappelli: ieri lunedì 28 novembre, il “Corriere della Sera” (sempre nell’edizione romana) ha dato ampio spazio ad una replica del Presidente dell’Anica, Francesco Rutelli, con un titolo che sprizza ottimismo: “L’audiovisivo adesso viaggia a gonfie vele”. Il Presidente della “Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Digitali” (questa è la denominazione, da qualche tempo, dell’Anica, che ha accolto nel proprio seno anche soggetti come Netflix, perdendo l’originaria caratterizzazione essenzialmente “cinematografara”) inizia il proprio intervento sostenendo che, se il “Corriere” lo avesse interpellato (prima dell’intervista a Verdone), avrebbe fornito “dati” sulla effettiva situazione del cinema e dell’audiovisivo in Italia.
Rutelli elenca indicatori essenziali: la crescita del fatturato delle imprese, la crescita dell’occupazione, la crescita delle esportazioni dei prodotti italiani nel mondo… Testualmente: “nel periodo 2017-2021, il numero di film prodotti è stabile (in media, 226 all’anno). Gli investimenti nell’audiovisivo sono cresciuti quattordici volte più del Pil nazionale. Il valore da circolazione internazionale è triplicato, raddoppiato il numero di film che vanno all’estero, le co-produzioni internazionali a +124 %. I posti di lavoro sono 180mila, +4,6 % (rispetto al 2019)”.
Questi dati sono così splendido splendenti (per parafrasare la canzoncina pop di Donatella Rettore)?! Nutriamo dubbi.
Ognuno di questi dati dovrebbe infatti essere sottoposto a verifiche tecniche, perché verosimilmente suscettibile di revisioni a fronte di una maggiore accuratezza metodologica.
Non staremo qui a sostenere che si tratta di “numeri in libertà”, ma che semplicemente andrebbero validati da soggetti terzi, indipendenti dalle “lobby” del settore (e l’Anica – sia consentito – non lo è ente indipendente, perché rappresenta gli interessi dei soggetti più grossi e forti del “sistema” audiovisivo).
La tesi di fondo di Rutelli – nota da anni e non dissimile da quella del suo predecessore Roberto Tozzi (fondatore della potente Cattleya, che nell’ottobre 2017 ha ceduto il 51 % delle proprie quote alla britannica Itv Studios) – è che si deve osservare il sistema audiovisivo nel suo “complesso” e non concentrarsi sulla crisi del segmento “theatrical”. Sulla base di non si sa bene quali aruspici, Rutelli scrive che “le sale non avranno più gli introiti degli anni d’oro, ma tornano e torneranno a crescere”. Quando, dove, come?! Lui stesso però segnala che “l’Italia nel ‘22 perde circa il 50 % sul ’19 (la Spagna, mercato più simile al nostro, il 40 %; gli Usa il 33 %)”…
Anica: “ci manca solo che mettiamo in discussione il tax credit”… è importante che oltre ai titoli riusciamo a vedere tutto il film”
Polemico assai, poi, il Presidente dell’Anica rispetto alla critica al “tax credit”, ed esplicito assai: “ci manca solo che mettiamo in discussione il tax credit, strumento decisivo di crescita e competitività della nostra filiera (mentre tutti i paesi concorrenti ci copiano, o tentano di attirare produzioni alzando i rispettivi incentivi); o che pensiamo di scoraggiare gli investimenti esteri magari con l’argomento che bisogna aiutare «le piccole produzioni», proprio mentre ci lamentiamo dell’assenza di offerte competitive che attraggano il grande pubblico. La filiera del cinema e audiovisivo cresce attraverso diversi modelli creativi (film di qualità, esordienti, grandi autori, opere ad alto budget, animazione, commedia…) e industriali (una pluralità di aziende con strategie differenti, inclusa l’attrazione di investimenti stranieri; anche con un auspicato sostegno a nuove aggregazioni nazionali e per accrescere finalmente le nostre capacità di acquisizioni all’estero)”. E conclude: “è importante, insomma, che oltre ai titoli riusciamo a vedere tutto il film”.
D’accordo, Presidente, ma è giustappunto quel che manca… la visione di “tutto il film” (a parte il fatto che, di molti “titoli”, non si ha nessuna traccia… visiva!).
Le criticità sono evidenti, e qui ci limitiamo ad evidenziarne alcune.
A Roma, come in tutto il resto d’Italia, si assiste ad una sconfortante dinamica di “desertificazione culturale”, ovvero alla moria di sale cinematografiche, di teatri, di librerie, di edicole… Vi sono zone del Paese che non hanno più una sala cinematografica nel raggio di decine e decine di chilometri… E cresce, anno dopo, il fenomeno inquietante dell’ “astensionismo culturale” degli italiani, di cui il cinema “theatrical” rappresenta la punta dell’iceberg (vedi, in argomento, “Key4biz” del 18 novembre 2022, “Ricaduta mediatica del ‘Rapporto Siae 2021 sullo Spettacolo e lo Sport’”).
Nelle sale cinematografiche, con esercenti ridotti allo stremo (e sopravvissuti alle chiusure irrazionali determinate da una pessima gestione economico-sociale della pandemia da Covid-19 soltanto grazie all’assistenzialismo emergenziale dello Stato), vengono proiettati invadenti trailer di soggetti come Sky, Netflix, Amazon…
Questi stessi spot vengono paradossalmente (e masochisticamente) trasmessi in orari di grande audience anche dalla stessa Rai, che pure dovrebbe essere sostenitrice del cinema “made in Italy” (ben oltre al ruolo anomalo di RaiCinema)…
Non esiste ancora una campagna promozionale-pubblicitaria seria e professionale, di ampio respiro e lunga durata, e dotata di budget adeguato, per stimolare la fruizione di cinema nelle sale…
Domande che restano (da anni) senza risposte: qual è il vero stato di salute del cinema italiano?
L’output produttivo aumenta, senza dubbio (e quindi anche la correlata occupazione) ma Rutelli (si) domanda che fine fanno quei 200 se non 300 film che vengono ormai prodotti in Italia?!
Quanti di essi escono nei cinematografi?
Quanti vengono trasmessi in televisione?!
Quanti vengono offerti dalle piattaforme?!
Quanti film verrebbero prodotti se – per ipotesi di lavoro – improvvisamente lo strumento magico del “tax credit” venisse eliminato?
A cosa serve questa sovra-produzione di titoli che, nella quasi totalità dei casi, non incontra “la domanda”, sia perché il pubblico diserta i cinematografi, sia perché si tratta di opere invisibili, che – nella migliore delle ipotesi – hanno una fugace apparizione nel circuito festivaliero (che rappresenta un mondo a parte, un mondo parallelo abitato da una compagnia di giro di cinefili, critici ed appassionati)?
Rutelli non può rispondere a queste domande, perché le risposte non ci sono, almeno sulla base dei dati (pubblici) ad oggi disponibili. Questa è la vera ed incontestabile verità.
A fronte di un deficit di conoscenze così profondo anzi radicale, come si può sostenere che il “bicchiere” sia “mezzo pieno” ovvero – come sostengono alcuni dissidenti (da Verdone a Lo Foco) – “mezzo vuoto”?!
E Rutelli non si esprime sul processo economico (“è la globalizzazione, baby”?!) che sta determinando che le più solide imprese di produzione vengono cedute a gruppi audiovisivi stranieri?! Oltre alla già citata Cattleya (Itv Studios), basti ricordare i casi sintomatici ed emblematici di Wildside (a maggioranza Fremantle), e di Groenlandia (a maggioranza Banijay) e Picomedia (a maggioranza di Asacha Media Group)… Ovviamente, questa preoccupazione può essere ribaltata, se si adotta una opposta chiave di lettura ideologica: lo stesso Riccardo Tozzi, nell’articolo di Cappelli sul “Corriere” di domenica 27, sostiene che questa internazionalizzazione di imprese italiche stimola la produzione di “opere radicate nelle culture nazionali che possono viaggiare internazionalmente. L’investimento estero è volto a rafforzare le società nazionali, non vuole dirigerle, e restano società nazionali che pagano le tasse nel paese, quindi non un centesimo esce, al contrario affluiscono investimenti esteri, crescono le esportazioni e aumenta l’occupazione”. Va tutto bene… quindi, secondo il “past President” dell’Anica.
Giampaolo Letta (Medusa – Gruppo Mediaset): rischio di “asimmetria competitiva” e che venga “messa in discussione la nostra identità”
E non sembra esattamente in sintonia con Tozzi, il dominus di Medusa (Gruppo Mediaset), Giampaolo Letta: “i proprietari di alcuni prodotti simbolo, come ‘I Medici’ o ‘Doc’, sono diventati anglo-tedeschi, ‘Gomorra’ è inglese, ‘Montalbano’ è di proprietà francese. Queste operazioni di acquisizione e aggregazione di produttori italiani effettuate da grandi gruppi europei collegati a broadcaster, agli italiani sono però di fatto inibite. Se, da una parte, è un segnale importante di attenzione dall’estero per la nostra creatività e le nostre professionalità, è evidente l’asimmetria competitiva che si è creata. Un ulteriore rischio che, nel tempo, possa essere messa in discussione la nostra identità”.
Concetto su cui riflettere, quello richiamato da Letta: “asimmetria competitiva”.
E qui si affronta anche un tema che riteniamo essere caro al neo Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: l’identità culturale nazionale, senza dover necessariamente evocare le tesi sull’esigenza di un “sovranismo” anche nell’ambito delle politiche culturali, a fronte della omologazione determinata dalla globalizzazione…
Peraltro, sarebbe interessante capire meglio quanta parte del flusso del rivoluzionario “tax credit” va a beneficio del “cinema cinema” (così intendendo la produzione di opere destinate ad una prioritaria – non soltanto formalmente – utilizzazione cinematografica, ovvero sala cinematografrica) e quanto a beneficio dell’audiovisivo non “theatrical”, grazie alla legge n. 220 del 2016 (la cosiddetta “Franceschini”, appunto): anche su questo fronte, le analisi critiche sono purtroppo poche e superficiali…
L’avvocato Michele Lo Foco: “il tax credit sta uccidendo il cinema italiano”
L’avvocato e polemista Michele Lo Foco (specializzato in diritto d’autore e con un curriculum di incarichi come amministratore di società quali Cinecittà Holding, Zètema, Rai, Fondazione Cinema per Roma) ci ha chiamato in causa: nel suo articolo di sabato su “Odeon / HiTech” scrive: “il Tax Credit, che erroneamente, anche da parte di acuti osservatori e commentatori come Angelo Zaccone (presidente IsiCult), viene ritenuta una norma che vale per tutti, non è assolutamente così democratico come si pensa di farlo apparire per i seguenti motivi. Il primo, quasi indicibile, è che solo le aziende di peso possono costruirsi un castelletto di fatture in eccesso, per usare un termine bonario. In questo modo il Tax Credit, calcolato su entità maggiorate, riduce di molto il costo del film. II secondo è che le banche, a tassi quasi raccapriccianti, offrono i loro servizi per operazioni corpose e non per piccoli importi. Pertanto, i piccoli e medi produttori non riescono a rendere liquidi i loro crediti d’imposta se non durante le riprese del film”. Lo Foco sostiene che l’attuale assetto del sistema è profondamente malato, alimenta una inflazione produttiva fine a sé stessa.
In sintesi: secondo Lo Foco, lo Stato alimenterebbe un sistema di dispersione di risorse pubbliche che va a beneficio soprattutto degli “imprenditori” di tipo “prenditore”…
L’accusa è pesante: e chi ci va a rimettere, in fondo… alla fine della fiera?! “Lo Stato, noi. E tutto questo perché? Perché qualcuno ha sbagliato, qualcuno ha imbrogliato, qualcuno è stato corrotto, qualcuno ha taciuto, qualcuno ha fatto carriera”. Il giudizio di Lo Foco è veramente tranchant: “il metodo Franceschini è lo tsunami che ha cancellato il settore, portando con sé tutti coloro che vivevano in basso e salvando quelli che vivevano in alto, protetti da Anica, da Rai, da Sky e dalle piattaforme, nel silenzio imbarazzato del Consiglio Superiore dell’Audiovisivo. Ha moltiplicato gli introiti dei potentati esteri, alcuni dei quali si sono impossessati anche delle strutture di Cinecittà, e ha imbavagliato i sindacati che a loro volta hanno impedito ad attori e maestranze di reclamare un lavoro dignitoso. Tutto per la gloria delle major straniere, in assenza di reciprocità, che occupano stabilmente sia al cinema che in televisione il 70 % del fatturato nazionale”.
Chi ha ragione, tra le contrapposte tesi, l’ottimista Francesco Rutelli o il pessimista Michele Lo Foco, in una sorta di rinnovata versione del sempiterno conflitto tra “integrati” ed “apocalittici” (parafrasando Umberto Eco)?!
Paolo Del Brocco (Rai Cinema): serve “una regola chiara sulle finestre temporali”
Si registra un’altra voce, lievemente critica, ma senza dubbio “organica” al sistema attuale. Sabato scorso, l’Amministratore Delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco, presentando il listino 01 Distribution a Torino, ha sostenuto che “l’ultima legge cinema ha dato risultati enormi e frutti insperati per tutto il comparto dell’audiovisivo… le risorse sono aumentate considerevolmente e senza la fondamentale azione del governo oggi assisteremmo alla chiusura di molte società di produzione con le conseguenze sull’occupazione… Ma ora dobbiamo fare un passo ulteriore: un’altra urgenza del sistema cinema è lo sblocco per l’anno in corso e la proroga per gli anni a venire del tax credit alla distribuzione… molti produttori e distributori si sono esposti economicamente in modo rilevante su un impegno del Ministero della Cultura, il governo poi è poi caduto e quel decreto non è ancora operativo per l’anno 2022. Sarebbe un danno economico enorme per tutti e anche un disincentivo a far uscire i film italiani nei prossimi mesi, se ciò non accadesse in tempi stretti”. Del Brocco si concentra poi sul problema delle “finestre temporali” (le cosiddette “windows”): “occorre avere una regola chiara, quale che sia, ma che rappresenti una certezza. È evidente che le scelte del pubblico se andare o meno a vedere un film in sala dipendano da diversi fattori, ma sono convinto che un’indicazione certa e univoca sul periodo di esclusiva per la sala per tutti i film possa avere nel tempo un peso significativo. I segnali che arrivano dagli Usa parlano chiaramente di un graduale ripensamento sulla politica delle windows e chi era stato determinante nella decisione di azzerare il periodo che intercorre fra l’uscita in sala e il primo degli sfruttamenti successivi, ora sta gradualmente invertendo la marcia…”.
Di fatto, il “dominus” di Viale Mazzini in materia di cinema “theatrical” si limita a chiedere delle correzioni di rotta, ma evidentemente è soddisfatto dello “status quo” (d’altronde come potrebbe essere diversamente, essendo anche lui tra i “poteri forti” del sistema?!).
E non si domanda molto (ovviamente) rispetto al senso dell’intervento della Rai nella produzione “theatrical”, a fronte di titoli che spesso non vengono nemmeno distribuiti nei cinematografici.
Anche qui, per parafrasare Rutelli, ci sembri manchi la visione (completa) del “film” nel suo complesso…
Da segnalare infine, rispetto all’articolo del “Corriere” di domenica, la totale assenza di reazioni di Mario Lorini (Presidente, recentemente confermato, dell’associazione degli esercenti Anec) e di Giancarlo Leone (Presidente dell’associazione dei produttori televisivi Apa).
Curiosi silenzi, tra rassegnazioni e connivenze?!
Torneremo presto su queste tematiche, in attesa di conoscere il Sangiuliano-pensiero…