nota diplomatica

Il boom del ‘cavolo’

di James Hansen |

L’arrivo ‘in società’ delle parolacce è recente quanto praticamente universale, almeno nelle culture occidentali. Colpa dei social? Non proprio secondo James Hansen, essi sono in buona parte degli specchi che riflettono i cambiamenti sociali in corso e non necessariamente una ‘causa’ di questi.

Fino a pochi anni fa il termine ‘cavolo’, più che per nominare la nota verdura, veniva usato nelle esclamazioni per sostituire il nome volgare del membro maschile. Tanto pudore linguistico, come nel caso dell’altrettanto antiquato ‘caspita!’, sopravvive ormai solo per ottenere un blando effetto comico. Nella vita di ogni giorno non si esita più a tirare fuori un onesto ‘cazzo!’—come facciamo noi qui, ora, scusandoci con i lettori che hanno poca familiarità con la parola.

James Hansen

L’arrivo ‘in società’ delle parolacce è recente quanto praticamente universale, almeno nelle culture occidentali. Nonostante le ricerche a livello ‘globale’ scarseggino, secondo le prime indicazioni pare che la moda furoreggi un po’ dappertutto nel mondo. Non è che le brutte parole siano una novità. Anzi, sono molto antiche. Sono le ‘regole d’uso’ a essere cambiate. Una volta era permesso, anche se non proprio di frequente, bestemmiare solo con chi si conosceva molto bene oppure tra i parigrado sociali. L’idea che solo gli ‘scaricatori di porto’ usassero quei termini era una finzione di politesse.

I maschi perbene si trattenevano in attesa delle battute di caccia, per la pesca insieme o per la partita serale a carte, quando si poteva parlare ‘da uomini’. Le donne delle stesse classi sociali i termini scurrili non li dovevano neppure riconoscere, non avendo mai avuto modo di sentirli—in teoria. C’erano poi precise distinzioni tra le bestemmie e le semplici parolacce a sfondo sessuale: le prime erano molto malviste nei paesi cattolici, mentre in quelli protestanti si usavano maggiormente termini relativi a funzioni biologiche.

Oggi, invece si sentono—e si utilizzano—molte più parolacce di una volta. Secondo le ricerche, nella lingua inglese dallo 0,5% allo 0,7% delle parole pronunciate nelle conversazioni quotidiane sono ‘oscene’. Può sembrare poco, ma la frequenza d’utilizzo di comunissimi pronomi come ‘we’ e ‘our’ non supera l’1%. Le conversazioni online sono ancora più scurrili. Già una ricerca del 2014 ha rilevato che il 7,7% dei post su Twitter contenevano almeno una parolaccia.

Il riferimento a Twitter non è un’attribuzione di colpa. I social in buona parte sono degli specchi che riflettono i cambiamenti sociali in corso e non necessariamente una ‘causa’ di questi. Un’analisi Google ‘Ngram’ sulle frequenze d’uso delle parole nelle pubblicazioni in lingua inglese dimostra molto chiaramente come l’esplosione nell’utilizzo della ‘F-word’—‘fuck’risalga agli inizi degli anni Sessanta, un paio di decenni prima dell’avvento dell’Internet.

Nei fatti, non si sa perché ci siamo messi tutti a bestemmiare come dei marinai. Forse è solo che si sono allargati i nostri orizzonti, un effetto dello stesso rimescolamento sociale per cui i ‘colletti bianchi’ non portano più necessariamente una camicia bianca e i ‘colletti blu’ non necessariamente lavorano in fabbrica.

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