Tutto ha origine nel 1877, quando Pietro Barilla apre una piccola bottega di pasta: se non ci trovassimo in centro, a Parma, sarebbe il perfetto scenario del ‘mulino bianco’. Ma non corriamo troppo; la storia è ancora tutta da scrivere. Eccoci al 1930, quando la Barilla è già una ridente azienda di 53 anni. E chi arriva a tentare di interrompere l’idillio? Non la Prima Guerra, non Benito: ma il Futurismo. È del 1930 il “Manifesto della Cucina Futurista” in cui Filippo Tommaso Marinetti boccia, tranchant, quell’“assurda religione gastronomica italiana” che chiamiamo pasta. Gli effetti? “Fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”. Ma come, se persino Garibaldi, l’eroe dei due mondi, era stato commerciante di spaghetti in Brasile… Marinetti e compagni si immaginavano invece gli italiani salire sui treni di alluminio del futuro; per questo, dovevano essere i più agili e snelli di tutti gli Europei.
Tempo di far passare anche un’altra guerra e la pasta avrebbe inamidato tutta l’identità nazionale; del resto “dove c’è Barilla, c’è casa”, reciterà più tardi un noto claim. La pasta è riuscita ad arrivare persino alla cosa più ‘di pancia’ che esiste: il tifo da stadio, quando il brand negli anni ’80 sarà sulle maglie dei giallorossi.
Caro Marinetti, non c’è stato proprio verso di mettere, alla pasta, il bavaglio.