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Se dovessimo raccontare questo poeta a una qualsiasi persona che non sia di Roma, la porteremmo prima di tutto a Trastevere, sotto la targa in travertino che ci indica che ci troviamo proprio lì, a piazza Trilussa: avamposto di giovialità genuinamente romana.
Non è un caso che di tutti i crocicchi sparsi nei suoi 1287 chilometri quadrati, a Trilussa sia stata intitolata proprio questa piazza. In fondo, è una di quelle che più ci parla di quella che è, e sarà, la storia della mentalità di questa città. Antonio Salustri (questo era il suo nome di battesimo), raccontava Roma con un poetare formato tabloid, descrivendo un popolino decadente e formicolante, sagace e mai stanco dell’agio. Era un po’ come la mosca di una sua poesia, quella che volava per inerzia e riusciva più o meno a stare a galla (almeno finché non incontrava il ragno). Oggi, l’identità di Trastevere (e della stessa Roma) è un po’ più un bailamme: forse rimarrà qualcosa della schiettezza del Ponentino, forse sarà turistica, forse solo glam, chi lo sa. Ai tempi, un giornalista criticò il poeta per aver trasmesso l’idea di una città “in pantofole”.
Effettivamente Trilussa è stato a suo modo un vate: passano gli anni, ma la colazione per un romano (al bar, in casa o sul terrazzo del vicino), è sempre sacra. E, per tutti i non romani, quando un cittadino dell’Urbe vi invita a colazione, vuol dire che vuol proprio farvi sentire a casa.