“Il vecchio e il mare” è l’ultimo romanzo che scrive Hemingway prima di vincere il Premio Pulitzer e poi il Nobel, rispettivamente nel 1953 e nel ’54.
È un racconto amaro, che ha quel tono pruriginoso di quando inoculiamo, per sbaglio, l’acqua salata: Santiago è un vecchio pescatore e da 84 giorni le sue lenze tornano su vuote. Alla fine, dopo tre giorni di lotta, riesce ad agganciare un grande pesce marlin. Ma nel tragitto non aveva fatto i conti con un terzo incomodo, perché il pesce sarà mangiato dagli squali. Ne rimarrà solo la lisca, lo stesso quadro desolante della sua vita, dove tutto sembra scarnificato: l’età, le vecchie mani, ovvio, anche le speranze. Viva però è l’iride che, come ci dice Hemingway, conserva ancora il colore del mare. E anche il suo infallibile stoicismo, più resistente di un filo da pesca.
Ora, avviciniamoci a una culla, in una giornata di luglio del 1899; si dice che i bambini appena nati riescano a vedere a una distanza di 25 centimetri. Abbiamo così provato a disegnare il panorama visivo dei primi giorni del piccolo Ernest: una “Festa Mobile” (come titola la sua autobiografia) che avrà sicuramente lanciato un qualche amo alla sua immaginazione.