Anche stamane abbiamo letto con attenzione sui quotidiani le uscite sul tema della rete unica di telecomunicazioni. Ci ha colpito l’articolo del Corriere della Sera dal titolo All’Italia serve una rete digitale (non le solite scorciatoie).
Ci ha colpito perché contiene inesattezze che riteniamo utile segnalare.
#1 Le tecnologie non contano, conta solo essere connessi?
La prima considerazione chiama in causa l’esigenza di famiglie, cittadini e imprese, un’esigenza che non pone il problema di che cosa permetta loro di essere collegati digitalmente: “…che questo avvenga attraverso una tecnologia piuttosto che un’altra…è ininfluente. Contano efficienza e prezzo…”.
In effetti le cose non stanno così. Usare una tecnologia o l’altra fa infatti la differenza.
Tra i due contendenti in campo sulla vicenda della rete unica, Open Fiber usa tecnologia in fibra FTTH, una soluzione a prova di futuro, come si usa dire; mentre TIM usa un mix fatto innanzitutto di tecnologia FTTC, ovvero fibra sino all’armadio di strada, per poi viaggiare in rame nell’ultimo tratto sino all’utente, il che rappresenta un semplice collo di bottiglia che ci ancora al passato delle connessioni alla rete, ma usa anche FTTH e (presumibilmente molto) rame. Quindi la tecnologia non è per niente ininfluente.
L’articolo sottolinea poi come su queste tematiche contino solo efficienza e prezzo.
Ma, a dire il vero, in base alla tecnologia che si usa cambia la performance delle prestazioni di rete: nel confronto tra FTTH e FTTC la differenza è rilevante. Nel confronto tra FTTH e rame è abissale.
Il prezzo può essere invece visto in modo differente. A volte, quando sono in ballo patrimoni immateriali di interesse nazionale, il prezzo può infatti non rappresentare il metro di riferimento. Ora si dà il caso che la rete di telecomunicazioni sia una delle infrastrutture più critiche per definizione. Una rete su cui si giocano i termini di “sovranità digitale” di un Paese, concetti molto cari alla presidente della UE Ursula von der Layer che li ha messi in cima nel suo discorso di insediamento.
Altrimenti dovremmo dare tutti i servizi amministrativi di gestione dello Stato a Google, che li farebbe con maggior efficienza e a minor costo. Solo che li farebbe da Mountain View e noi diventeremmo una colonia d’Oltremare.
#2 Le tlc non vengono normate dagli Stati nazionali ma dalla UE
La seconda considerazione è, come dice lo stesso articolo del Corriere della Sera, di cornice.
Il riferimento è alla presunta pretesa dello Stato italiano che: “…non può pensare di influire su processi che coinvolgono il mercato perché controlla, attraverso CDP, il 10% di TIM, il 23 e virgola qualcosa di ENEL che a sua volta controlla il 50% di Open Fiber, altro attore che dovrebbe partecipare alla rete unica…”.
Ma non è così.
È vero che CDP ha il 10% in TIM. Ma CDP non possiede il “…il 23 e virgola qualcosa di Enel…”, una quota che invece fa capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Mentre l’articolo dimentica di citare che l’altro 50% di Open Fiber è proprio in capo a CDP. Insomma, imprecisioni che disorientano il lettore.
Tuttavia, il dato rilevante si legge subito dopo.
L’articolo sostiene infatti “…il diverso ruolo che deve avere lo Stato. Il pubblico deve dettare le regole e controllare che vengano applicate. Può agevolare i processi…Ma sempre con regole che ne stabiliscano l’uscita. Ne va della reputazione del Paese sulla quale si fondano le scelte degli investitori. Affidare alla CDP le partite che non si sanno risolvere vuole dire cercare scorciatoie”. Al contrario, le telecomunicazioni non vengono regolate dagli Stati nazionali, ma a livello europeo. Ciascun Paese ha infatti l’obbligo di implementare la normativa prevista dal pacchetto Telecom dell’Unione Europea. E non può inventarsi leggi fuori da questo perimetro, né spingere il ritorno al monopolio come si vorrebbe fare con la rete unica in capo a TIM.
Ecco perché sarebbe utile per tutti che le informazioni fossero corrette e complete, indipendentemente dal posizionamento a favore o contro un determinato argomento.