Quando gli europei sentono parlare di ‘minoranza’ negli Usa, la mente corre automaticamente a quella afroamericana. Nei fatti, delle minoranze ‘ufficiali’ americane, la più importante (circa il 20% della popolazione) è quella ispanica—66 milioni di persone—e dovrebbe arrivare a superare i 110 milioni di individui entro il 2060, quando un terzo degli americani nelle loro case parleranno lo ‘spanghlish’, il gergo anglo-spagnolo.
Ad oggi gli afroamericani costituiscono il 12-13% della popolazione americana—circa 48 milioni di persone. Sono tallonati dalla minoranza asiatica (il 7% della popolazione) che è cresciuta dell’81% tra il 2000 e il 2019, superando perfino l’aumento del 70% degli ispanici. La popolazione nera è invece cresciuta del 20% nello stesso periodo, mentre quella bianca è sostanzialmente stabile.
Per parlare collettivamente di queste minoranze, l’espressione di politesse è, oggi, “persons of color”, una locuzione che suggerisce una base razziale della distinzione: cioè, un modo fine per dire—brutalmente—‘non bianchi’. Non è però così semplice. Fino all’incirca agli anni ’70 del secolo scorso, gli ispanici erano comunemente considerati dei bianchi dal punto di vista razziale (a meno che non avessero la pelle nera), solo che parlavano ‘strano’ e, nell’immaginario nazionale, portavano i coltelli… Poi, hanno cercato, riuscendoci, di farsi qualificare formalmente come ‘minoranza’ per accedere alle varie agevolazioni—nelle assunzioni, nei finanziamenti statali, nell’accesso alle borse di studio, et al.—pure a costo di diventare ‘di colore’ anche quando quel colore era bianco… Ad oggi gli Usa sono, secondo l’Instituto Cervantes, il ‘quarto paese di lingua spagnola‘ del mondo.
La percezione della dinamica demografica americana in questi termini è storicamente recente, nata per motivi sicuramente nobili dopo la metà del secolo scorso quando il Paese—non solo il Governo—decise di intervenire per correggere le terribili storture presenti nella società Usa, specialmente nei confronti della popolazione nera. Per fare ciò era necessario conoscere le dimensioni del problema—bisognava cioè poter ‘contare’ le minoranze, imponendo così distinzioni che anche prima c’erano, ma in maniera indefinita: bisognava ‘assegnare’ un’etichetta razziale a tutti, che la volessero o meno.
Non ci vuole molto a immaginare i problemi sorti; per esempio, l’identità sociale dei figli dei matrimoni ‘misti’. La riposta è stata quella di applicare una definizione ‘semi-razziale’ che pare generare sempre di più una sorta di struttura di ‘caste’ ereditarie, paragonabile—se solo figurativamente—al sistema indiano che parte dagli ‘intoccabili’ per arrivare ai ‘bramini’. Per dire, malgrado gli sforzi fatti, è tuttora ‘meglio’ in termini sociali nascere bianchi piuttosto che neri, asiatici (stanno meglio economicamente) piuttosto che ispanici e così via.
C’è però una bomba ad orologeria che sta ticchettando: la ‘futura’—se non prossima—minoranza bianca: la casta bianca che ora è al comando cresce poco, anzi, forse non cresce proprio. Rappresenta il 57% della popolazione Usa. Per il momento ha, per dire, la ‘maggioranza’. E poi?