L’alta definizione cominciò in epoca analogica e fu un insuccesso. Al solito vi fu una guerra di standard: uno “europeo” (ma in realtà franco-tedesco), e uno giapponese (Sony più la tv di stato NHK). L’Italia secondo le migliori tradizioni tenne i piedi in due staffe, sperimentando entrambi gli standard e realizzando anche con le telecamere giapponesi un costoso film di Peter Del Monte, “Giulia e Giulia”, girato a Trieste con Kathleen Turner. Il folto pubblico alla Mostra di Venezia del 1987 commentava le riprese di Del Monte con entusiastici commenti: “Come si vede bene in alta definizione…”. Dopo alcuni infruttuosi tentativi desistei dallo spiegare ai miei vicini di poltrona che il film era stato convertito in pellicola per la distribuzione, e la perfetta definizione che guardavano era quella della cara, vecchia pellicola.
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L’alta definizione analogica rimase allo stato di esperimento. Nessuno si dimostrò voglioso di acquistare un nuovo televisore per vedere l’alta definizione. Il colore, in coincidenza con qualche campionato del mondo di calcio, è stata l’unica innovazione – con il verde brillante del campo di gioco e le maglie multicolori – che ha portato il pubblico a fare la fila per comprare un nuovo apparecchio televisivo. Il “contratto comunicativo” tra tv e spettatori, allora, era a bassa definizione, quella garantita dal tubo catodico. Le modeste misure degli schermi, peraltro, non facevano vedere bene la differenza.
Così almeno è stato prima della televisione digitale. Il “contratto comunicativo” è mutato radicalmente, in coincidenza con la moltiplicazione dell’offerta televisiva. La pay-tv e poi la pay-per-view arruolano clienti paganti, molto esigenti; ogni dettaglio dello spettacolo offerto, comprese le modalità di visione, poteva essere valorizzato per giustificare il prezzo richiesto. I nuovi schermi digitali piatti (al plasma, LCD, a Led) di dimensioni sempre più grandi rappresentano un supporto ideale per un testo audiovisuale enhanced, potenziato e migliorato, dove la qualità del suono e della visione fanno la differenza, e costituiscono criteri certi di scelta sia dello schermo che del contenuto che si intende vedere. A maggior ragione quando un second screen, un tablet magari, ci permette di guardare da un secondo punto di vista o di fruire di informazioni aggiuntive sul contenuto che vediamo.
Anche sul versante della ripresa, le telecamere ad alta definizione hanno acquistato in qualità e in leggerezza mentre i costi diminuiscono o rimangono costanti. Possono essere miniaturizzate in un telefonino o in una piccola camera GoPro senza peso che il ciclista lega, con una fascia, alla propria fronte. O che può essere collocata sotto un minuscolo drone e mandata a riprendere a distanza ravvicinata immagini della Costa Concordia semiaffondata. Oppure ancora fissate ad un cavo su un campo di calcio per realizzare un sistema di skycam che riprenda dall’alto, muovendosi come una steadycam aerea, la partita di calcio.
Ci siamo così abituati al colore che un’immagine bianco e nero ci sembra subito vintage, il riflesso di un mondo antico, o il desiderio del fotografo di essere un artista. Allo stesso modo immagini di scarsa qualità non le tolleriamo più, se non sono documenti unici: in tal caso il video sporco, traballante, girato con mezzi di fortuna è una testimonianza di veridicità e di circostanze difficili di cattura delle immagini. Ma è un caso particolare, inserito in un contesto in cui la qualità dell’immagine offerta è quasi iperrealista.
È quindi prevedibile che tutta la TV, man mano che andrà a esaurirsi il parco delle tecnologie di ripresa obsoleta, diventerà HD digitale. Con effetti importanti sulle tipologie di ripresa: ad esempio con l’aumento delle scene di paesaggio e di ambiente, a cui la vecchia tv preferiva sempre primi e primissimi piani. Dicevano i vecchi cameramen che sui piccoli schermi, nel mobile cubico di legno che sembrava una grotta, i paesaggi sembravano presepi. Meglio sparare un bel primo piano. Adesso tutto ciò non è più vero. Abbiamo una tv di paesaggio (soprattutto urbano) che non abbiamo mai avuto.
La tv generalista, se vuole continuare ad essere una tv di maggioranza e non la badante degli ultrasessantacinquenni, dovrà avvicinarsi all’HD con maggior cognizione. Non si tratta soltanto di cambiare i dispositivi di ripresa, ma la regia. Serve assai meno una regia “talk”, in cui si seleziona sempre il primissimo piano di chi dice qualsiasi cosa, e in cui l’alternativa è il piano di ascolto di chi sta a sentire quello che si dice, o il totale su una piccola folla che applaude. Il ping pong fra parlare e ascoltare, tra fare smorfie divertenti e applaudirle, non funziona più, perché l’alta definizione (e le serie americane) hanno introdotto capacità narrative, di storytelling, in tale quantità da farci sembrare insulso quasi tutto il resto.
Quindi, avremo l’alta definizione ovunque, sui vari schermi di cui disponiamo, dai piccoli second screens ai grandi schermi urbani che ormai popolano le metropoli moderne del pianeta. L’unica zona problematica riguarda il 3D, che non ha ancora trovato il suo “contratto comunicativo” se non sul grande schermo dei multiplex. Se non si risolve il problema degli occhiali, e di una certo affaticamento nella visione, difficilmente esso si affermerà nella visione domestica. E poi c’è il mobile: come dimostra anche il recente iPhone 6 plus, anche chi preferiva concepire telefono e tablet come oggetti dialoganti, ma separati, sta producendo ibridi: schermi intermedi su cui una videochiamata, o un film in streaming, sono apprezzabili nelle loro immagini mentre le funzioni più spiccatamente telefoniche sono comprese nel bundle. In altre parole, l’HD sta diventando una commodity, qualcosa che è ovvio avere. Chi non si adegua sarà relegato in nicchie minori, o sparirà.
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