Operazione Z — I mezzi russi in Ucraina girano con la lettera “Z” in bella vista, cosa che ha molto eccitato le febbrili menti che navigano sui social. Dovrebbe essere semplicemente il simbolo identificativo dei blindati e degli altri veicoli dedicati all’invasione, per evitare che si sparino tra loro— anche se è curioso ricordare che la “Z” non appare come tale nell’alfabeto cirillico russo. In sé, il fatto non è tanto strano: è comune nel mondo militare l’usanza di denominare le operazioni con, per esempio, le lettere dell’alfabeto greco: “delta”, “gamma”, “sigma” e così via.
Cioè, non ci sarebbe nulla di strano se “Operazione Z” non fosse già stato il nome in codice di una delle più famose iniziative belliche del secolo scorso: l’attacco giapponese alla base navale americana di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. L’incursione, effettuata in assenza di una dichiarazione di guerra, fu bollata dall’allora Presidente degli Usa, Franklin Roosevelt, come un evento “che vivrà nell’infamia”.
L’azione fu concepita dall’ammiragliato giapponese con lo scopo di distruggere la flotta statunitense nel Pacifico. Ebbe successo: una corazzata americana saltò in aria, una si capovolse, altre tre furono affondate; molte altre navi furono danneggiate. L’operazione dette al Giappone il sostanziale controllo dell’Oceano Pacifico per tutta la prima fase dei combattimenti.
Fu un attacco “a sorpresa”, ma solo in termini relativi, poiché l’offensiva nipponica di fatto rappresentò la reazione del Giappone alla confisca, avvenuta nel luglio dello stesso anno, da parte degli Usa di tutti i beni giapponesi presenti sul territorio americano nonché all’imposizione di un embargo petrolifero. La mossa di Roosevelt, nata come rappresaglia per l’invasione nipponica dell’Indocina francese, venne replicata dalla Gran Bretagna e dalle Indie orientali olandesi (i possedimenti coloniali dei Paesi Bassi in Asia) e privò di colpo il Giappone di tre quarti del suo commercio estero e dell’88% delle sue importazioni petrolifere.
La risposta iniziale giapponese fu di indirizzare la propria attenzione alla Malesia e alle sue piantagioni di caucciù, all’epoca un materiale assolutamente strategico per la fabbricazione dei copertoni per le auto e i camion. Se il Giappone non poteva avere il petrolio, allora l’Occidente non doveva avere le gomme. È almeno possibile che così facendo, i giapponesi pensassero di acquisire una pedina per uno scambio del tipo “vi ridiamo il vostro caucciù se la finite con l’embargo petrolifero”, ma, come sappiamo, non andò così. Tutti si erano spinti troppo in là e la questione si chiuse con le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Vladimir Putin non è un uomo colto, ma si pregia di essere uno studioso di storia, per quanto di una storia particolare, piegata al proprio consumo, come quando deve giustificare le sue ambizioni in Ucraina. Non è detto però che sappia molto dell’andamento della Seconda guerra mondiale nel Pacifico, lontano dai suoi interessi e dalle sue ambizioni personali.
La “Z” potrebbe non significare nulla di particolare. Potrebbe non essere stato Putin a sceglierla—o, se l’avesse fatto, può darsi che nessuno abbia avuto il coraggio di dirgli quanto portò male l’ultima volta, per il Giappone e per l’Impero del Sol Levante.
Nota diplomatica ‘Operazione Z‘ di James Hansen