E’ una campagna di ‘soft lobbying‘ quella che Google, secondo il New York Times, sta conducendo in Europa dallo scorso anno per togliersi di dosso un po’ di quelle ombre che i diversi dossier aperti dall’Antitrust europeo hanno proiettato sulla sua immagine.
Una campagna costellata di corsi di formazione digitale per gli insegnanti, di concerti sponsorizzati da YouTube, di finanziamenti alle startup e agli editori con l’obiettivo ‘ufficiale’ di abbracciare e sostenere il passaggio al digitale di tutto quanto fa cultura in Europa.
Ma, ovviamente, il business è business ed è (o dovrebbe essere) cosa ben distinta dalla filantropia. Parliamo, però, di Google, o come si chiama ora Alphabet, un’azienda che nel giro di pochissimo tempo ha raggiunto una capitalizzazione che si aggira attorno ai 510 miliardi di dollari e detiene un potere che va oltre la nostra immaginazione, avendo a disposizione una mole enorme di informazioni personali di chiunque utilizzi i suoi servizi (tutti noi in sostanza, tranne qualche rarissima eccezione). I confini, quindi, sono molto sfumati.
Secondo il NYT, invece di fare pressione nei centri del potere in maniera tradizionale, cioè pagando dei lobbysti per portare avanti le sue istanze, Google sta in sostanza cercando di far leva sugli appassionati d’arte, gli insegnanti i giovani imprenditori che non possono permettersi di pagare l’affitto di un ufficio decente.
La speranza è quella di cambiare la percezione che il grande pubblico ha di un’azienda che sempre più spesso viene associata a pratiche di ottimizzazione fiscale molto poco ortodosse, abuso di posizione dominante, uso improprio dei dati personali degli utenti.
Uno sforzo al quale Google ha destinato una somma non da poco, pari a 450 milioni di dollari tra il 2015 e il 2017, stando a quanto emerso da documenti pubblici e stime sulle sue attività. Cifra decisamente più consistente dei 4,2 milioni spesi solo in Europa nel 2014 per la lobby ‘tradizionale’ sui decisori politici e che, comunque, impallidisce di fronte ai 17 milioni di dollari spesi a Washington nello stesso periodo.
Resta da vedere se questa cifra, seppur ingente, basterà per convincere gli europei che Google non è uno dei tanti ‘intrusi’ americani in Europa e, soprattutto, per evitare le salate sanzioni che potrebbero essere comminate dalla Ue?