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Google, il Fisco italiano chiede 1 miliardo di tasse non pagate

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Google si ritrova sotto la lente del Fisco italiano a sette anni dalla sua prima volta, quando, nel 2017, accettò di versare 306,6 milioni di euro. Oggi però secondo la GdF le tasse da pagare toccano il miliardo di euro.

L’Italia presenta il conto a Google su una presunta evasione fiscale da parte del colosso statunitense stimata dalla Guardia di Finanza di Milano di poco meno di 900 milioni di euro e per la quale ora l’agenzia delle entrate chiede alla web company californiana di versare oltre un miliardo di euro, compresi sanzione e interessi.

A portare la Procura milanese ad aprire un fascicolo è stata la trasmissione degli esiti delle verifiche fiscali chiuse un anno fa, con anche la denuncia di uno degli amministratori esteri, dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria.

Verifiche che hanno ipotizzato una “stabile organizzazione immateriale”, dotata di una sede di affari nel capoluogo lombardo, della filiale europea che ha il quartier generale a Dublino e, di conseguenza, una imposta evasa (Ires) stimata per 108 milioni su un imponibile superiore a 400 milioni. A ciò si aggiunge, secondo i calcoli, il mancato versamento nel nostro Paese delle royalties sui beni e servizi immateriali (licenze e software) fornite dalla società irlandese per oltre 760 milioni. Sono conti, questi, su cui l’Agenzia delle Entrate avrà l’ultima parola.

Al momento, ha chiesto più di un miliardo per sanare la situazione con l’erario, ma la cifra verrà discussa con la controparte e probabilmente si arriverà a un accordo per un importo minore.

Google e fisco italiano: il precedente nel 2017

Non è la prima volta che la multinazionale americana finisce sotto indagine. Nel 2017 il gruppo di Mountain View, con versamento di 306 milioni, aveva chiuso le pendenze tributarie e sanato pure situazioni dei 15 anni precedenti.

L’inchiesta penale, nella quale erano iscritti 5 manager per una evasione pari a 98,2 milioni di euro di imposta sui redditi di impresa , si era conclusa con un patteggiamento e quattro archiviazioni.

Il caso Netflix

La nuova inchiesta fiscale, coordinata dai pm Giovanna Cavalleri e Giovanni Polizzi, per certi versi ricalca quella su Netflix, società che nel maggio di due anni fa ha pagato 55 milioni e 850 mila euro circa in un’unica soluzione e ha aperto una sede operativa nel nostro Paese.

Al gruppo statunitense guidato da Red Hastings è stata contestata, per la prima volta a livello mondiale, “una stabile organizzazione occulta di una società estera operante della digital economy – come era stato spiegato ai tempi in una nota dalla Procura milanese -, completamente priva di personale e caratterizzata esclusivamente da una struttura tecnologica avanzata”. Struttura che “sarebbe stata asservita in via esclusiva allo svolgimento di funzioni aziendali chiave per la conduzione del proprio business sul territorio dello Stato” italiano.

I pm sostenevano che, anche se la società Netflix International BV risiedeva nei Paesi Bassi, possedeva in Italia una “sede fissa di affari”. Gli asset che l’azienda americana utilizzava in Italia erano cavi, fibre ottiche, computer, server e algoritmi, che avrebbero fatto rientrare Netflix nel concetto di “stabile materiale”.

La verifica fiscale realizzata per gli anni dal 2015 al 2019 aveva constatato l’esistenza di basi imponibili Ires e Irap non dichiarate e la presenza di ritenute non operate e non versate sulle royalties pagate alla consociata estera con sede alle Isole Cayman, titolare dei diritti di sfruttamento della proprietà intellettuale del gruppo per tutto il mondo.

Con il versamento dei 55,8 milioni di euro al Fisco italiano, Netflix aveva deciso anche di far fatturare i ricavi degli abbonamenti non più alla società olandese ma alla italiana Netflix Services Italy, registrata già nel 2021.

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