L'intervento

Gli strumenti di tutela nei ‘digital media’. Intervento del commissario Antonio Martusciello (Agcom)

di Antonio Martusciello, commissario Agcom |

Ecco l'intervento che Antonio Martusciello, commissario Agcom, ha tenuto oggi in occasione dell'evento organizzato dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: 'Autorità pubblica e autodisciplina: gli strumenti di tutela nei 'digital media'.

Il valore e la filiera della pubblicità online

La Comunicazione Commerciale in Rete che, sino a pochi anni orsono era considerata un elemento di novità nel panorama dell’offerta di pubblicità, sembra esser divenuta oggi un fenomeno centrale e consolidato del mercato.

A partire dal 2012, anno in cui il legislatore ha modificato in tal senso l’art. 43, comma 10 del Tusmar, AGCom rileva, nell’ambito del SIC, i ricavi da “pubblicità online e sulle diverse piattaforme”. L’analisi dei dati può essere interessante per comprendere il fenomeno e compiere alcune considerazioni.

I ricavi da pubblicità online del SIC si attestavano nel 2012 a un valore di 1,5 miliardi, per arrivare al 2015 a un valore di 1,7 miliardi di euro, con una crescita del 2,2% sull’anno precedente; in tal senso il trend di crescita appare in flessione rispetto al tasso di incremento registrato nel 2014, pari al 9,5%. Tuttavia, tale circostanza, se da un lato dimostra il consolidamento del comparto, dall’altro prova che il settore non smette di registrare valori positivi. Se, poi, si comparano questi dati con l’andamento complessivo dei ricavi del SIC – in calo dello 0,4% rispetto al 2014 – si comprende l’effettivo risultato ottenuto dal comparto pubblicitario online.  Altro dato significativo in termini di equilibri del mercato, è il sorpasso nel 2015 della pubblicità online sul canone RAI il cui valore è di 1,5 miliardi.

Il dato è confermato da analoghi indicatori anche a livello internazionale. Secondo una ricerca pubblicata da Business Insider, il 3° trimestre del 2016 è stato molto significativo per Facebook. Si infatti è realizzato lo storico sorpasso di FB sui produttori di contenuti classici, e per la prima volta i ricavi da pubblicità della piattaforma (stimati in 9,1 miliardi di dollari) hanno superato majors come CBS, Disney e Comcast.

Una crescita che si è accompagnata anche a un’evoluzione in termini di nuovi di strumenti e formati che hanno, certo, determinato un cambiamento nelle modalità di vendita degli spazi pubblicitari, ma hanno anche visto la nascita di nuovi soggetti e piattaforme affiancate agli attori economici tradizionali.

Oggi, la varietà di prodotti offerti dalle piattaforme online consente di veicolare la comunicazione commerciale su motori di ricerca, portali, siti di informazione, blog, social network, app, con modalità di navigazione (fissa, mobile, nomadica) e device più vari (smartphone, tablet, Smart-Tv, pc, console).

Una pubblicità molto diversa da quella primordiale dei primi anni Novanta, quando il portale del Global Network Navigator vendeva il primo annuncio pubblicitario a uno studio legale della Silicon Valley o quando il sito hotwired.com pubblicava il primo banner.

La pubblicità online può essere classificata, oggi, tenendo conto del device utilizzato dall’utente per la navigazione, ma ancora in base all’oggetto/tipologia di inserzione pubblicitaria (pubblicità display, video, search, classiefied, newsletter/email/sms, etc.), alla modalità di vendita agli inserzionisti (da quella venduta cost-per-mille impression a quella cost-per-click; da quella venduta a performance a quella per tempo).

Una varietà di strumenti e di modalità che rende possibile accrescere il grado di personalizzazione dei messaggi commerciali indirizzati agli utenti, attuando tecniche sempre più sofisticate di profilazione. Un sistema particolarmente efficace che consente di ridurre sensibilmente i costi di targeting e che sembra ispirare anche i media più tradizionali.

La pubblicità mirata, sembra, infatti, la nuova frontiera anche nel mercato pubblicitario tradizionale. Sky Media, ad es., ha recentemente introdotto il sistema Sky Adsmart che consente di gestire contemporaneamente fino a 250 spot profilati in sostituzione di un commercial lineare in onda. In tal modo, il decoder diventa un vero e proprio server pubblicitario dinamico, veicolando messaggi più affini ai gusti e alle preferenze degli spettatori e permettendo agli investitori di raggiungere più facilmente il target.

Anche Mediaset ha annunciato che, a partire dal prossimo anno, introdurrà la pubblicità indirizzabile (addressable advertising) sulla tv in chiaro. Tale sistema consentirà all’emittente di inviare sulle tv connesse, messaggi pubblicitari mirati, unendo il broadcasting – normalmente effettuato per il tramite dell’etere terrestre – con il narrowcasting – che sostituisce i contenuti durante gli intervalli pubblicitari – e inviando, quindi, tramite Internet spot personalizzati.

Una pubblicità, che si distingue sensibilmente da quella veicolata con i tradizionali mezzi di comunicazione e a cui gli operatori iniziano a guardare con un certo interesse. Accanto, infatti ai tipici obiettivi di branding (notorietà, visibilità, sviluppo del marchio, costruzione della reputazione di un brand, ecc.) questi sistemi, nel medio/lungo termine, sono in grado di sfruttare la pervasività della Rete in termini di audience raggiunta e di durata dell’esposizione del pubblico.

L’idoneità a essere pertinente alle esigenze manifestate dagli utenti, l’attitudine a individuare e raggiungere efficacemente specifici target di utenti, a tracciare e segmentare gli stessi, poi, costituiscono aspetti particolarmente attraenti in termini di efficienza per gli inserzionisti che intendono perseguire obiettivi di performance.

agcom

La profilazione

Alla maggior immediatezza e flessibilità della pubblicità online, si accompagnano, però, maggior insidie per la tutela dell’utente. Il behavioural advertising è un fenomeno che nasce ben prima di Internet, ma che le caratteristiche di pervasività della Rete hanno reso più significativo.

È stato sostenuto che tale tipologia pubblicitaria possa produrre benefici nei confronti del consumatore, il quale, in tal modo, non riceve più pubblicità generica, ma solo mirata e personalizzata, relativa a prodotti e servizi di suo interesse. La quantità di messaggi pubblicitari invisi al consumatore è in questo modo ridotta. Tuttavia, se certamente tali riflessioni possano essere in parte condivise, non bisogna dimenticare che la pratica di marketing apporta principalmente grandi vantaggi alle imprese in termini di costi/benefici e costituisce una diffusa tecnica di finanziamento di vari siti web.

Certo è che questi soggetti sono tenuti a informare compiutamente i consumatori delle tecniche di profilazione adottate, ma, in concreto, possiamo ritenere questi ultimi pienamente consapevoli?  Quanti di noi per accedere a un servizio o a un sito hanno realmente letto le relative privacy policy?

L’eccessiva lunghezza e il linguaggio tecnico-giuridico utilizzato sono elementi che rendono poco accessibile e comprensibile il contenuto di questi documenti a un utente ‘medio’ e sempre più ‘di corsa’.  Una ricerca americana, già nel 2008, aveva rilevato che un utente avrebbe bisogno di 244 ore ogni anno, per leggere le policy privacy di ogni sito web che visita.

Ma a monte del fenomeno dobbiamo rilevare – senza ipocrisie – che gli interessi o le preferenze su cui si fonda tale strategia pubblicitaria sono offerti dagli stessi utenti (ad esempio, durante il processo di registrazione a un sito), oppure dedotti dal loro comportamento di navigazione durante una singola sessione di navigazione o un periodo di tempo più esteso (siti web visitati in precedenza, ricerche eseguite, click, acquisti effettuati, ecc.).  L’utente apprezza la gratuità di alcuni servizi senza rendersi pienamente conto che, di fatto, la contropartita per la loro fruizione è, almeno in parte, costituita proprio dai dati di profilazione da lui forniti, direttamente e/o indirettamente.

Il punto di vista degli investitori

Sappiamo che nel paradigma ideale della “concorrenza perfetta” uno dei requisiti essenziali per il raggiungimento dell’equilibrio concorrenziale è la perfetta circolazione delle informazioni. In ambito pubblicitario, gli indici d’ascolto rappresentano una informazione essenziale per il corretto funzionamento del mercato della raccolta pubblicitaria, soprattutto per le piattaforme free.

 

Come noto, in considerazione della complessità tecnica e del notevole impiego di risorse economiche necessarie, l’Autorità non effettua una rilevazione autonoma degli indici di ascolto (cosa che, del resto, non avviene in alcun paese del mondo), ma ha ragionevolmente declinato il potere di “cura” conferitogli dall’articolo 1, comma 6, lettera b), n. 11, della legge n. 249/97 nella “vigilanza” sull’operato delle imprese che svolgono tali indagini.

L’importanza che il legislatore attribuisce alla rilevazione degli indici d’ascolto è, altresì, testimoniata dal fatto che la “manipolazione” o la “diffusione di dati consapevolmente falsi” è punita ai sensi dell’art. 476 del Codice Penale.

Le evoluzioni che abbiamo testé descritto inerenti l’offerta di pubblicità online, richiedono un adeguamento dei sistemi di rilevazione degli indici d’ascolto, e in termini più generali è necessario porre in essere strumenti di misurazione della efficacia degli investimenti per le comunicazioni commerciale in Rete.

Il modello organizzativo, prevalentemente utilizzato a livello europeo, per la rilevazione degli indici d’ascolto è basato su rilevazioni svolte da una società terza, il cui capitale azionario, di norma, è ripartito tra i vari attori del mercato, sia sul versante della domanda – investitori – che sul versante offerta – broadcaster, editori, piattaforme web, ecc. Il modello è quello del c.d. del JIC – Joint Industry Committees. Questo modello presuppone un’intesa tra le componenti del mercato tale da garantire una sostanziale e intrinseca stabilità, assicurando, in tal modo, un naturale equilibrio del sistema. Il modello, basato su un soggetto terzo indipendente, è teso a garantire al mercato la diffusione di informazioni veritiere, corrette e puntuali, tali non falsare le condizioni di concorrenza sul lato dell’offerta e in grado di consentire agli investitori l’assunzione di decisioni di spesa consapevoli sul versante della domanda.

Le nuove piattaforme online non sembrano intenzionate ad aderire a sistemi di rilevazione basati sul modello JIC, conseguentemente si assiste all’emergere di piattaforme chiuse che non agevolano le analisi dei terzi nel reperimento dei dati di audience.  I dati “proprietari”, dunque, sono dati non certificati da soggetti terzi e non “garantiti” da una metodologia certificata aliunde.

Gli investitori vivono, quindi, una fase di grande incertezza: da un lato i mezzi classici, dalla televisione alla stampa, hanno perso appeal, dall’altro le informazioni disponibili sulla pubblicità online sono in parte lacunose o fornite dai medesimi soggetti che vendono prodotti pubblicitari.

Questa situazione di asimmetria informativa configura una situazione di relativo “fallimento di mercato” che può essere alla base di quel rallentamento negli investimenti in pubblicità online, rilevato dalle analisi SIC svolte da AGCom.

Tale feeling dubitativo sulla efficacia della pubblicità online ha trovato una autorevole fonte in un articolo appena pubblicato dal Financial Times, che prendendo le mosse da alcune considerazioni compiute dal più grosso investitore mondiale in advertisingProcter & Gamble – sottolinea come l’online advertising, dopo il boom iniziale, sia oggi chiamato a offrire riscontri oggettivi circa l’efficacia dei suoi prodotti pubblicitari.

Il settore dell’advertising online, vive, dunque, una fase bivalente: da un lato è oramai una realtà consolidata di mercato, dall’altro è chiamato a una prova di maturità nei confronti dei clienti che si aspettano maggiori garanzie di un ritorno sugli investimenti.

Per uscire da questa impasse è necessario dare al mercato regole certe, poiché un eccesso di deregulation può essere di ostacolo agli investimenti e alla crescita a scapito di tutti gli stakeholders.

Qualche riflessione conclusiva

Partendo dalla definizione originaria di pubblicità contenuta nel d.lgs. n. 74/92 – che parlava di pubblicità diffusa “in qualsiasi modo” – poi riproposta nel Codice del Consumo, si può evincere un concetto di pubblicità molto ampio e, soprattutto, disgiunto dal mezzo attraverso il quale essa viene diffusa.

Per anni la pubblicità è stata legata esclusivamente ai mezzi di comunicazione tradizionali (radio, televisione, giornali, cartelloni) e, frutto di questo retaggio, la regolamentazione del fenomeno applicato ai new media ha stentato a trovare una propria specificità.

Certamente il legislatore delegato del ’92 non poteva prevedere lo sviluppo esponenziale cui la Rete è stata soggetta, ma anche gli interventi successivi, pur fornendo chiarimenti applicabili direttamente alla pubblicità online, non sono sembrati sufficienti a regolare il fenomeno online.

Una disciplina ancora disorganica a fronte di un fenomeno tutt’altro che marginale e in cui le norme di riferimento sono le più disparate (da quelle sulla pubblicità tradizionale al commercio elettronico, dai contratti a distanza alla privacy oltre, naturalmente, alle ulteriori norme del Codice del Consumo e a quelle civili, amministrative e penali applicabili nel nostro ordinamento).

Anche la recente proposta di modifica della direttiva SMAV ha manifestato una scarsa incidenza sull’ambiente Internet, sebbene un timido segnale si possa registrare con riferimento alle piattaforme di video-sharing (28-bis della proposta di Direttiva), e più in generale con la sollecitazione a carico delle piattaforme online di comportarsi in modo responsabile nel rispetto degli obblighi concernenti i diritti dei consumatori.

Ma come abbiamo visto, la pubblicità online è un settore tutt’altro che marginale, che, in controtendenza con altri settori, registra costanti tassi di crescita. Inoltre, tale comunicazione commerciale – benché legata normativamente ancora alla pubblicitaria tradizionale – presenta caratteristiche e contenuti molto diversi rispetto a quest’ultima. Interattività e personalizzazione sono caratteristiche centrali di questo fenomeno, cui, però, conseguono rischi diversi e potenzialmente più pericolosi della pubblicità classica: non solo per i consumatori – soggetti a pubblicità non manifesta e spamming – ma anche nei confronti delle stesse imprese – soggette, invece, a pubblicità ingannevole e comparativa.

Importante in questo scenario è stato il ruolo dell’autoregolamentazione che ha fronteggiato l’inadeguatezza degli strumenti regolamentari di tipo tradizionale e ha costituito, in assenza di un’adeguata disciplina, un sistema di tutela particolarmente utile. Sul tema, molti organismi e autorità sono intervenuti, stilando documenti sulla behavioural advertising, atti a sollecitare l’industria pubblicitaria ad adottare alcune regole standardizzate per affrontare in maniera uniforme la materia e ridurne i rischi per gli utenti.

Ma in tale contesto, accanto all’esigenza di individuare efficaci strumenti di tutela dinanzi alle nuove tecniche di pubblicità online, è necessario interrogarsi a monte sull’efficacia dei mezzi regolatori tradizionali nel sistema online.

Oggi all’interno della Rete c’è tutto, ci sono le nostre persone e si esprimono le nostre libertà, che si traducono in diritti. E i diritti, in quanto tali, hanno bisogno di regole, non per limitare le libertà, ma per garantirle. Le nuove tecnologie, infatti, per quanto sconvolgenti siano, non mutano gli elementi fondamentali della convivenza civile. E i diritti, indipendentemente dal mezzo utilizzato, rimangono sempre gli stessi.

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