Dopo l’espansione della televisione negli anni Sessanta e la contestazione del Sessantotto, la riforma del servizio pubblico che interesserà quasi tutta l’Europa, inizia nella prima metà degli anni Settanta in Francia proseguendo in Italia fra il 1976 e il 1979, quindi nel Regno Unito con la nascita di Channel 4 e in Spagna con l’arrivo delle televisioni delle Comunità Autonome regionali. Nel caso della Rai, sembra proseguire la competizione fra le due Italie emerse in occasione del referendum sul divorzio. Come per la nuova Rete Due di Massimo Fichera anche per la seconda testata la rottura con il passato è netta.
Nel linguaggio, nel tono e nella presentazione delle notizie al pubblico. Il giornalista sostituisce lo speaker, riprendendo modelli anglosassoni diventa conduttore di un filo diretto con i telespettatori, cessa di leggere testi asettici e paludati con l’obiettivo di catturare l’attenzione del telespettatore raccontando loro non solo i fatti avvenuti ma spiegando cosa bolle in pentola, con parole più semplici. Con il Tg2 nasce non solo una seconda testata concorrente a quella della prima rete, il Tg2: in seno alla redazione di questa seconda testata televisiva Rai assistiamo ad una stagione irripetibile dove convivono – non senza ombre e in taluni casi nuove forme di discriminazione, censura e/o autocensura, giornalisti di diverse estrazioni culturali religiose e politiche:
- non solo socialisti e laici, ma anche cattolici per lo più di sinistra (ma anche cattolici moderati, comunisti senza complessi, accomunati da un progetto di un’informazione.
- più aperta alla società italiana. Il criterio di selezione e cooptazione dei giornalisti chiamati a scegliere in quale testata operare risponde sempre o quasi sempre alle scelte editoriali volute da due grandi direttori come Andrea Barbato ed Emilio Rossi.
Nel caso di quest’ultimo il segno del Tg1 non sarà la discontinuità voluta dal Tg2, bensì l’assoluta continuità con l’impronta popolare del telegiornale del Canale Nazionale diretto da Rossi come fosse ancora il telegiornale unico, avendo chiaro in mente che il servizio pubblico avrebbe dovuto ineludibilmente evitare di essere elitario.
Abbiamo insomma a che fare con una lottizzazione che, a differenza degli anni della Seconda Repubblica, risponde sempre – o quasi sempre – a criteri editoriali di eccellenza, almeno nei suoi primi anni. Mentre il Tg1 di Emilio Rossi cerca di continuare a soddisfare con un ritmo più vivace e con un linguaggio più chiaro le richieste del grande pubblico nazional popolare, la nuova testata di Andrea Barbato cerca di interessare e rappresentare i nuovi soggetti e i nuovi movimenti emersi alla ribalta nella società italiana, gli studenti e gli operai di massa, le donne e non solo gli intellettuali e le élite politiche che non si riconoscono nei valori e negli indirizzi del partito dominante, al governo del paese da ormai tre decenni. Anche dopo la seconda lottizzazione che consentirà il decollo del terzo canale su scala nazionale dopo il riconoscimento dei network televisivi privati entrati progressivamente nell’orbita della Fininvest di Silvio
Berlusconi, nonostante alcuni tentativi di normalizzazione e di caccia alle streghe nei confronti di alcuni giornalisti dissidenti, malgrado la fuoriuscita di quelli di area comunista passati al Tg3, le scelte editoriali di due grandi direttori come Alberto La Volpe al Tg2 (che vogliamo ricordare con Stefano Rolando ad un anno dalla morte anche per il suo impegno nelle istituzioni) e Sandro Curzi al Tg3 prevalgono sulle pressioni dei propri editori di riferimento, rispettivamente il PSI e il PCI (quest’ultimo peraltro, facendo il proprio ingresso nei piani alti di Viale Mazzini consente al servizio pubblico di rappresentare un’area politica nel frattempo tornata all’opposizione dopo la fine della stagione dell’unità nazionale). La fine del regime dei partiti, la nascita del bipolarismo con l’introduzione del sistema maggioritario negli anni della Seconda Repubblica, da un lato, l’aumento delle testate televisive assegnate anche ai network televisivi commerciali e di nuove testate informative anche all news sulle piattaforme digitali dalla seconda metà degli anni Novanta e poi sul web, hanno cambiato profondamente le cose e la fine degli editori di riferimento anziché arrestarla ha favorito in quei anni l’occupazione selvaggia delle grandi testate nazionali del servizio pubblico.
Infocivica nel nuovo sistema crossmediale della comunicazione ritiene necessario porre le basi – seguendo lo spirito riformatore degli anni Settanta- per dar vita ad un nuovo servizio pubblico della comunicazione capace di presiedere sia l’offerta radiotelevisiva lineare tradizionale sia le reti sociali e i nuovi servizi disponibili attraverso le applicazioni sui nuovi dispositivi fissi e mobili attraverso la rete, ovvero di raggiungere tutti i segmenti del pubblico, cercando al contempo di combatterne la frammentazione, ovvero cercando come negli anni Settanta di favorire l’allargamento della rappresentanza e della coesione sociale della nostra comunità nazionale in tutte le sue articolazioni.
Assegnare le tre testate nazionali ai tre principali poli emersi nelle ultime due legislature sarebbe non solo anacronistico ma del tutto inadeguato contribuendo in questa fase ad un’ulteriore frammentazione della società italiana ovvero nella direzione opposta.
Siamo convinti che in questa fase costituente di avvio della società dell’informazione e della conoscenza in rete (di cui non conosciamo ancora tutte le conseguenze), il pluralismo e la selezione dei migliori giornalisti possano e debbano avvenire nell’ambito di una testata unica, capace di presiedere orizzontalmente e crossmedialmente tutti questi segmenti dell’informazione da quella generalista destinata a tutti a quella tagliata su misura per i singoli utenti. E’ possibile, anzi necessario passare dal pluralismo delle testate (e degli editori di riferimento che devono tornare ad essere tutti i cittadini senza esclusioni di sorta) al pluralismo all’interno di una testata unica per il servizio pubblico della comunicazione, purché si evitino il vecchio latifondo precedente a quella stagione irripetibile di riforma del monopolio e l’occupazione selvaggia successiva negli anni della seconda repubblica. Presiedere le reti sociali trasformandole da bar dello sport e luoghi di sfogo di utenti atomizzati o peggio profilati e serviti da informazioni più o meno fasulle destinati principalmente a soddisfare le esigenze degli inserzionisti, in luoghi di formazione consapevole di un nuovo spazio pubblico aperto, tollerante e senza discriminazioni cui sembra la grande sfida che ci attende nei prossimi anni con reti sempre più veloci, algoritmi e potenze di calcolo sempre più performanti, l’irresistibile ascesa dell’intelligenza artificiale nelle nostre vite. Quella stagione irripetibile potrebbe forse per certi versi ispirarci.
Ringraziamo Roberto Amen, avendo ideato questo incontro prendendo spunto dal suo libro In Onda. Visioni e storie di ordinaria TV (Egea, 2016)
Come la televisione può aiutare chi la fa a capire il mondo. Questo ha cercato di descrivere Roberto Amen nel suo libro” In onda”, edito dalla casa editrice dell’Università Bocconi. Non si trattava di raccontarsi e neppure di raccontare le avventure di coloro che descrivono il mondo con l’aiuto dei suoni, delle parole e delle immagini, ma di dare qualche suggestione su come la professione del giornalista televisivo, possa aiutare ad interpretare l’esistente. Amen propone come metodo di lavoro del giornalista, un procedimento mentale di svuotamento e di assorbimento, proprio come una spugna che si strizza e si inzuppa. Liberarsi di ogni pregiudizio, anche quello più condivisibile, quello apparentemente più corretto, e quindi farsi letteralmente contaminare dalla realtà.
A questo punto si comincia a raccontare quel che si è capito con l’uso di tutti gli strumenti che il linguaggio televisivo offre: immagini, testo effetti d’ambiente e musiche. E proprio il linguaggio è uno degli elementi più importanti del libro. Un linguaggio spesso usato male con superficialità senza rendersi conto della sua importanza. L’informazione per immagini ha una sua specificità e una sua grammatica di cui bisogna tenere conto. Spesso i colleghi per esempio stentano a comprendere che nel nell’annunciare un servizio o un collegamento in diretta devono incuriosire lo spettatore, creare in lui l’interesse che lo porta a seguire con attenzione il servizio che segue. Mentre alcuni conduttori sono talmente presi dalla smania di protagonismo che invece anticipano il contenuto del servizio seguente svuotandolo di ogni interesse, tanto che, in caso di diretta, costringono il giornalista che si collega a usare la formula trita e ritrita: “come già avete anticipato da studio ….”
Nel suo libro Roberto Amen vuole dare spazio soprattutto a quelle storie che hanno rappresentato per lui tendenze e stati d’animo particolari, nei racconti di persone anonime comeil taxista che salva i libri dalla spazzatura, il vecchio pilota che precipita nel Mediterraneo e salva i passeggeri, il fantasma del supermercato, la nascita di Internet. In questo viaggio tra le meraviglie della quotidianità, che spesso sono più stupefacenti di qualsiasi fiction, Roberto Amen si fa accompagnare da alcuni personaggi che gli indicano la strada della consapevolezza e della saggezza, come il collega del Tg2 Luigi Bartoccioni, Italo Calvino, Carlos Castaneda e altri. In fondo dice Roberto Amen il nostro compito è quello di raccontare la complessità del mondo in maniera semplice ma evitando ogni banalità.