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GDPR, machine learning per migliorare la privacy ma algoritmi poco trasparenti

Venerdì scorso, 25 maggio, è entrato ufficialmente in vigore il nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati voluto dall’Unione europea. Detto anche GDPR, dall’acronimo dell’inglese di General Data Protection Regulation, il provvedimento è un atto unico nel suo genere e presto o tardi tutte le organizzazioni a livello globale, che avranno modo di trattare i dati personali di cittadini/consumatori europei, dovranno averci a che fare.

Il GDPR inizia così il suo lungo viaggio in giro per il mondo e non certo per raccogliere ovunque consensi, perché le imprese dovranno affrontare delle spese e non pochi cambiamenti nel loro modo di gestire la privacy degli utenti.

Sta di fatto che ora, i dati personali dei cittadini europei andranno trattati in un certo modo e molto probabilmente il GDPR potrebbe anche essere preso a standard per sviluppare modelli più omogenei in ogni parte del pianeta.

D’altronde, la diffusione inarrestabile degli oggetti intelligenti (smart objects) e connessi in rete (internet of things), calcolati in circa 8 miliardi già oggi, e la metà della popolazione mondiale che accede regolarmente a internet, pongono la questione della privacy al centro delle agende di tutti i Governi e anche delle imprese.

In questo scenario, le tecnologie di machine learning (ML), cioè di apprendimento automatico, potrebbero tornare utili nel rafforzamento delle difese della privacy. Secondo la testata Telecompaper, tali soluzioni consentirebbero di proteggere i nostri dati senza esporre a possibili violazioni e sottrazioni le informazioni più sensibili e le personally identifiable information (PII), cioè tutti quei dati che possono sfruttati per identificare in maniera univoca un utente all’interno di un sito web o di una piattaforma (ad esempio dalla combinazione di nome e cognome assegnati ad un indirizzo IP in combinazione con l’indirizzo fisico del soggetto).

I modelli ML possono così esaminare una grande mole di dati in tempo praticamente reale. Grazie ad essi e agli algoritmi utilizzati è possibile rilevare modelli specifici di comportamento, anomalie e tendenze generali.

I processi necessitano di una minima supervisione umana, adeguandosi facilmente al GDPR, che premia quelle organizzazioni che riducono al minimo l’attenzione degli esseri umani ai dati.

Il problema è che il machine learning va alimentato con una grande quantità di dati (big data), che gli sono offerti dall’automazione crescente e dall’internet delle cose. “I big data sono una cosa, la protezione dei dati un’altra”, ha affermato la professoressa Lilian Edwards della University of Strathclyde di Glasgow.

L’apprendimento automatico che poi sta alla base dell’intelligenza artificiale (artificial intelligence, AI), comporta l’impiego costante di algoritmi, che riescono a migliorare sé stessi “abbuffandosi di dati”: “più dati consumano ed elaborano, più facilmente indovinano i modelli giusti”.

Ad esempio, uno di quei modelli che permettono ad una macchina a guida autonoma di riconoscere gli oggetti, le persone, gli ostacoli sulla strada.

Si tratta per l’appunto di modelli/schemi di comportamento del veicolo frutto del lavoro dell’apprendimento automatico.

I big data possono essere una minaccia al GDPR nel momento in cui la conservazione dei dati è approssimativa e presenta troppe “falle”: “si mettono in discussione le nozioni di trasparenza e fiducia. Diventa subito opaca la gestione dei dati e scarsa la trasparenza degli obiettivi. Per rendere un algoritmo trasparente si deve riuscire a capire come si raggiunge una determinata decisione, che tipo di strategie sono state adottate, ma questo non sembra sia semplice da ottenere dalle aziende proprietarie ”.

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