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G7, Trump via da accordo di Parigi? Ecco cosa prevede per la ‘febbre’ della Terra

Davanti alle telecamere dei tg e ai flash dei fotografi i leader dei 7 Paesi con le principali economie industrializzate al mondo sembravano andare d’amore e d’accordo durante il G7 che si è svolto a Taormina dal 26 al 27 maggio scorso e che è costato almeno 37,5 milioni di euro. Poi nelle solo sei pagine del comunicato ufficiale si è scoperto che Donald Trump ha preso tempo sull’accordo di Parigi, tra l’altro già ratificato da Barack Obama.

“Sul tema dei cambiamenti climatici è stato un vertice molto insoddisfacente”, ha detto Angela Merkel. Perché? Si è raggiunto un accordo a sei. “Gli Stati Uniti sono nella fase di revisione delle loro politiche sui cambiamenti climatici e sull’accordo di Parigi e dunque non sono nella posizione di dare il loro consenso su questi temi”, si legge nel comunicato finale del vertice. “Prenderò la decisione finale sull’accordo di Parigi la prossima settimana ha scritto su Twitter il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Mentre gli altri, prendendo atto della posizione a sorpresa degli americani, rispettano l’impegno preso: “i capi di Stato e di governo di Canada, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Giappone e i presidenti della Commissione e del Consiglio europei riaffermano il loro forte impegno ad attuare rapidamente l’accordo di Parigi, come già deciso al vertice di Ise-Shima” dello scorso anno.

 Obiettivo principale: non sforare il tetto dei 2°C

L’accordo di Parigi è un impegno per la lotta al surriscaldamento globale: è entrato in vigore il 4 novembre scorso e punta a contenere l’aumento della temperatura su scala mondiale, ossia la febbre della Terra. Il testo parte dal presupposto che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta e richiede “la massima cooperazione di tutti i Paesi”. Il traguardo, vincolante, è riuscire a contenere il riscaldamento globale “ben al di sotto dei 2°C dal livello pre-industriale”, suggerendo l’ambizioso limite di 1,5°C entro 2100. Per centrarlo, le emissioni di gas serra prodotti da attività umane — anidride carbonica, metano, refrigeranti — devono cominciare a calare dal 2020, ma i governi sono liberi di stabilire e raggiungere autonomamente gli obiettivi di riduzione.
Non è invece stata fissata alcuna data per l’azzeramento totale delle emissioni, scelta che ha portato alle critiche di Greenpeace e di altre Ong ambientaliste.

Da chi è stato ratificato

 L’accordo di Parigi è in vigore perché è stato ratificato da più di 55 Paesi che complessivamente producono almeno il 55% delle emissioni mondiali dei “gas serra”, responsabili del riscaldamento del pianeta. Questa soglia è stata raggiunta con l’adesione dei membri dell’Unione Europea, dopo che Stati Uniti e Cina (responsabili da soli del 38% delle emissioni) avevano ratificato l’accordo alla vigilia del G20 di settembre e che l’India aveva dato il suo Ok il 2 ottobre. “È un passo storico”, ha commentato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon. Mentre per Barack Obama “l’accordo di Parigi non risolve da solo il problema del clima, ma è la scelta migliore per salvare il pianeta”.

Energie rinnovabili al posto di petrolio e carbone

Per abbassare le emissioni sarà necessario sostituire progressivamente le fonti di energia: petrolio e soprattutto carbone dovranno lasciare spazio alle energie rinnovabili. A partire dal 2020 i Paesi di vecchia industrializzazione come Usa, Germania e Regno Unito erogheranno complessivamente 100 miliardi di dollari per diffondere le tecnologie verdi: ai progetti potranno contribuire anche fondi e investitori privati e ci sarà un meccanismo di rimborsi per compensare le perdite finanziare dovute ai cambiamenti climatici nei Paesi geograficamente più esposti.

Cosa non va nell’accordo

 L’accordo di Parigi presenta dei limiti, il principale riguardano il controllo delle emissioni: a ogni Paese spetta l’autocertificazione. Troppo comodo.

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