David Foster Wallace, scrittore americano purtroppo prematuramente scomparso, ha tenuto un solo discorso pubblico nella sua vita. Di solito rifiutava gli inviti che gli venivano rivolti e aveva provato a rifiutare anche l’invito a pronunciare il “Commencement Speech” per la cerimonia delle lauree al Kenyon college in Ohio il 21 maggio del 2005. Fortunatamente dopo molte insistenze accettò e fece bene perché di quella occasione rimane un bellissimo intervento conservato nella memoria di tanti.
Iniziando il suo discorso, Wallace raccontò la storiella dei pesci e dell’acqua. Queste furono le sue parole: «Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua oggi?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “Ma cosa diavolo è l’acqua?”» Come spiegò subito dopo il relatore, il succo della storia dei pesci è che spesso le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare. Anche se questa può sembrare una tesi buona per tante occasioni, serve a spiegare in maniera semplice e diretta il fatto che spesso tendiamo a non osservare e a non capire il senso profondo dei cambiamenti che avvengono intorno a noi.
L’acqua in cui viviamo oggi, e ancor di più l’acqua in cui vivremo nel prossimo futuro, è fatta di gocce digitali, di un oceano di bit che sta cambiando il nostro ambiente, le nostre vite, il nostro agire e i nostri modi pensare e lo sta facendo troppo velocemente. La velocità di trasformazione dell’innovazione tecnologica è molto più rapida della velocità dell’evoluzione umana e ci fa sentire come pesciolini che non riconoscono il liquido in cui sono immersi quotidianamente. La rapidità del cambiamento unita alla profondità che sta raggiungendo, richiede a tutti di aggiornare i paradigmi cognitivi, i processi di conoscenza individuali e sociali. Non facendolo diventiamo incapaci di “vedere” i tanti cambiamenti nella realtà in cui viviamo, causati della sua evoluzione caoticamente dinamica.
L’innovazione sta cambiando il brodo in cui tutti nuotiamo e non serve far finta di niente o peggio far vedere di aver capito e continuare con vecchie pratiche, vecchie categorie interpretative che vanno avanti per inerzia mentre il mondo ha cambiato direzione forse in maniera irreversibile. Chi saprà “leggere” le trasformazioni avrà i vantaggi e chi rimane ancorato a relazioni e processi antichi e, in molti casi obsoleti, sarà vittima di un mondo per capire il quale le solite forme di interazione non sono più valide, e ancor meno efficaci.
La carenza di competenze digitali diventa ogni giorno un handicap sempre maggiore per le persone e per la nostra società. L’analfabetismo digitale ampiamente diffuso nella popolazione italiana rischia di sottrarre opportunità ai giovani, ai lavoratori, ai cittadini italiani, in sintesi a tutto il Paese. Il capitale umano è una delle cinque aree analizzate dalla Commissione Europea attraverso il cosiddetto Digital Economy and Society Index (DESI) che misura i progressi dei Paesi membri sul tema della digitalizzazione dell’economia e della società.
In quest’area l’Italia (dati relativi al 2017) è nelle ultime posizioni: siamo 25-esimi su 28 nazioni. Questo pessimo risultato è dovuto in buona parte al basso numero di cittadini con competenze digitali di base. Soltanto il 44% della popolazione le ha, ben al di sotto della media europea che è del 56%. Inoltre soltanto il 2,5% degli italiani sono esperti delle tecnologie digitali (siamo in posizione 22-esima nella EU per questo indice). A questo va aggiunto che circa il 22% degli italiani non hanno mai usato Internet.
Questi dati sono confermati da una ricerca dell’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano che ha rilevato che l’86% degli italiani accede a internet almeno una volta al giorno, ma soltanto il 15% dei nostri connazionali sa come programmare un computer.
Questi dati segnalano un ritardo nazionale che se non sarà colmato sarà un altro elemento chiave per il mancato progresso del Paese. Naturalmente non bisogna pensare che sia necessario far diventare tutti esperti informatici, ma occorre capire che è fondamentale formare soggetti attivi e consapevoli nel mondo ormai permeato in maniera capillare dalle tecnologie informatiche. Servono azioni concrete e diffuse per mettere in condizioni i cittadini di vivere il tempo presente con le necessarie competenze, altrimenti si rischia di avere una società di persone che saranno oggetti passivi delle nuove tecnologie invece di esserne soggetti attivi.
Per migliorare le competenze digitali degli italiani e le posizioni nelle classifiche internazionali serve costruire una formazione di base diffusa che faccia comprendere cos’è un algoritmo, come funziona un computer e come usare con competenza la rete, conoscendo come cercare e valutare l’informazione online, la sua veridicità, la sua utilità. Serve fornire agli studenti, e ai giovani più in generale, la possibilità di comprendere i processi computazionali, la logica che li governa, le loro potenzialità che possono essere sfruttate nel lavoro e nella vita quotidiana. Mentre tutti concordano sulla scontata necessità di insegnare la matematica a partire dalle scuole elementari, dovrà essere altrettanto normale insegnare in tutte le scuole i principi dell’informatica. Oltre a imparare a fare le quattro operazioni, i ragazzi devono conoscere come comprendere e come comporre semplici algoritmi. Serve loro conoscere come funzionano le macchine digitali per saperle usare nella vita e nel lavoro da attori intelligenti e non subirle.
L’apprendimento delle tecnologie digitali ovviamente non deve in alcun modo sostituire quello delle materie umanistiche o di altri saperi. Deve invece essere complementare e integrativo, deve essere a supporto di una nuova formazione che sappia unire umanesimo e tecnologia, cultura digitale e cultura letteraria, filosofia e logica computazionale, economia e internet. L’obiettivo non è quello di formare una generazione di futuri programmatori, ma insegnare ai ragazzi il pensiero computazionale, cioè la capacità di risolvere problemi, semplici o complessi, applicando la logica, pensando con metodo a strategie utili per definire soluzioni.
Il Ministero dell’istruzione, la scuola, gli atenei, le agenzie di formazione, dovrebbero lavorare per una nuova formazione. Bisogna implementare un progetto di ampiezza nazionale di educazione digitale che coinvolga le scuole, le università e i centri di formazione. Erroneamente, in troppi credono che sia sufficiente l’utilizzo quotidiano degli strumenti digitali per diventare competenti. La maggior parte degli utenti ignora la complessità degli strumenti che usa e come essi vadano usati con attenzione e competenza. Una nuova formazione deve correggere questi errori e colmare le enormi lacune che altrimenti nei prossimi anni segneranno nuove disuguaglianze.
Non si può lasciare questo obiettivo soltanto nelle mani dei privati e delle grandi compagnie che sono i soggetti più attivi in questo campo ma che per la loro stessa natura non hanno obiettivi sociali e responsabilità pubbliche. Per citare un soggetto che si sta muovendo più velocemente di altri, di recente l’Università Bocconi ha deciso di estendere l’insegnamento dei linguaggi di programmazione in tutte le sue lauree, qualsiasi sia la loro area disciplinare. L’esempio della Bocconi indica una via a quelli stanno fermi senza capire che occorre agire nel cambiamento e si troveranno in forte ritardo nel prossimo futuro, restando esclusi da un mondo in cui la tecnica sta assumendo un ruolo di strumento totalizzante che cerca di inglobare tutto. Si può condividere o no questo cambiamento, ma non si può pensare certo di annullarlo.
Le competenze digitali rischiano di costruire un grande divario sociale e culturale tra i pochi esperti e i tanti utilizzatori ignoranti. Questa divisione, oltre a creare nuove disuguaglianze, arrecherà molti danni alla nostra società. Il World Economic Forum stima che un terzo delle professioni e dei mestieri che ci saranno nel 2020 ancora non esistano. Occorre correre ai ripari per gestire il futuro che arriva troppo velocemente per diffondere in ampi settori della società e verso tutti i giovani le competenze digitali di base. La politica, la scuola, l’università sono chiamate a questo compito. Non farlo adesso produrrà enormi problemi nei prossimi decenni, quando l’uso intensivo delle nuove tecnologie creerà tanti nuovi lavori che oggi non esistono e ne abolirà molti di quelli di oggi. Senza le skills digitali necessarie molte attività non potranno essere svolte o saranno svolte in altre regioni del mondo con effetti negativi sulla nostra società e sulle future generazioni.