I nostri legami affettivi vengono messi a dura prova oggi, in un momento storico in cui gli eventi ci costringono a guardarci in faccia, a condividere ogni momento delle nostre giornate senza la scusa del “non ho tempo”, “non torno a cena”, “dai bambini ci aspetta la lezione di nuoto, di canto, di inglese”, per crollare poi stremati a fine giornata e trovare conforto nella distrazione tecnologica della play station, nello scrollare frenetico dei video di Tik Tok o Instagram, nel rispondere ai vari messaggi del gruppo delle mamme che chiedono di versare la quota del regalo della maestra insieme a frecciatine che fanno leva su competizioni narcisistiche di varia natura.
Abbiamo finalmente il tempo per poter stare tutti insieme, quel “tutti insieme” tanto desiderato fino a poco tempo fa quando il ritmo frenetico delle nostre giornate ci costringeva a ritagliare i momenti dell’intimità in piccoli frammenti di esistenza che ci riscaldavano il cuore riempendolo di note nostalgiche, in un nuovo ritmo lento al quale non siamo abituati anche se a volte lo avevamo desiderato, che ci regala in modo inaspettato la gioia della condivisione affettiva in un periodo storico in cui si attiva in modo esponenziale quel bisogno di essere uniti, di sentirci protetti, al sicuro nell’intimità del nostro spazio affettivo vitale che la teoria dell’attaccamento aveva sistematizzato a partire dagli anni 50.
Il sistema di attaccamento [1973; 1969; 1980; 1988] che è innato ed onnipresente secondo John Bowlby dalla “culla alla tomba” [Bowlby, 1973] si attiva nei momenti di stress e bisogno e ci predispone a cercare la/e nostra figura/e affettive di riferimento per sentirci protetti nella ricerca spasmodica di un abbraccio consolatorio che sembra dirci: “va tutto bene ci sono io-noi”. Quel va tutto bene, ci sono io-ci siamo noi, che oggi, più che mai, abbiamo il bisogno di sentire e che è messo alla prova, in una verifica costante del legame affettivo quando intorno a noi gli eventi stanno lentamente frantumando le nostre sicurezze.
Abbiamo bisogno di adattarci a questo nuovo ritmo, alla lentezza e al silenzio di un tempo che scorre scadenzato dal numero di contagi, dalle morti di un’intera generazione che poteva ancora trasmetterci tanto e che si è spenta nel silenzio e nel desiderio di ascoltare, anche fosse per l’ultima volta, quel “va tutto bene ci sono io-noi”, e possiamo farlo soltanto se facciamo leva sulle nostre risorse interne, su quella base sicura dell’attaccamento, che oggi viene messa a verifica esperienziale nell’intimità consolatoria delle nostre mura domestiche.
Ci abbracciamo, ci consoliamo, ci sentiamo protetti ma OGGI alla lunga, presi dalle nostre abitudini e dal nostro vecchio ritmo di verifica della base sicura, non riusciamo più a sentirci protetti, a scaldarci nel sentire ci sono io-ci siamo noi, perché e questo ce lo dice di nuovo la teoria, il sistema di attaccamento è strettamente collegato al sistema di esplorazione. Tanto più ci sentiamo sicuri dei nostri affetti e tanto più ci allontaniamo dalla base sicura per vivere con sicurezza, fiducia e altrettanta affettività il mondo esterno, gli altri legami, le altre relazioni che ruotano intorno a noi.
In questo circuito paradossale di blocco del sistema di esplorazione la mente fa leva sulle risorse interne, sulla gestione dello stress, e tira fuori modalità per affrontare la separazione momentanea dalle altre figure affettive rilevanti come gli insegnanti, gli amici, il terapeuta, i colleghi di lavoro. Nella reazione di protesta alla separazione, anch’essa tipica dell’attivazione del sistema di attaccamento, si rinforza la ricerca del bisogno affettivo di essere compreso, capito, sostenuto nel nostro bisogno affettivo di curare i legami di riferimento.
E allora ci si adatta e si ristruttura una modalità completamente diversa dell’essere in relazione online, ci si sorprende nello scoprirsi una mimica facciale che si amplifica nel cercare di esprimere la gioia nel vedersi finalmente dopo tanto tempo, a sentire nella voce dell’altro un tono di felicità ma anche di preoccupazione come se finalmente il canale online si fosse sintonizzato sulla giusta frequenza. Non più adolescenti con la testa china che sbirciano video di sfuggita quando sono insieme a cena per festeggiare un amico, ma adolescenti che si guardano negli occhi attraverso gli schermi che vorrebbero essere trafitti e frantumati per arrivare finalmente a dare una pacca sulla spalla all’amico: “ciao Brò, quanto mi manchi!”.
Gioia nel vedersi in classe ognuno dalla propria postazione online, nell’operatività di un gruppo che lavora e che alterna blocchi di videocamera e audio per assentarsi momentaneamente dalla classe virtuale e distrarsi con una partita alla play con un messaggio via chat chiedendo all’amica: “ma Matteo ha la foto di Ilaria sulla scrivania, hai visto?”. C’è chi come in classe seguiva ligio le lezioni, chi mantiene la sua esuberanza, chi sente il bisogno di rispettare lo sforzo di adattamento a Zoom o Meet del docente per esprimere la sua gratitudine per avergli assicurato quella continuità didattica ristrutturata oggi a continuità di vita, di consuetudini e di ordinario, anche per chi nell’ordinario e nella quotidianità prima non credeva: “Prof. io non ce la faccio più. Quando si torna a scuola?”.
Terapeuti che si adattano ed esplorano, sull’esigenza imperiosa di mantenere la continuità terapeutica, un nuovo modo di fare terapia, con l’obiettivo di modellare il setting clinico su una presenza virtuale che fa leva su una relazione costruita nel tempo nella stanza di terapia, che oggi rimane interna e viene traghettata in una sorta di psicoterapia domiciliare in cui il paziente apre le porte della sua intimità familiare al clinico: “finalmente Dott.ssa vede il mio cane, il mio dipinto, la stanza dove gioco con mio figlio”.
Terapeuti che incontrano per la prima volta un paziente online e costruiscono un rapporto rovesciato in cui solo dopo, quando tutto sarà finito, si potrà aprire la porta della stanza di terapia e incontrarsi in una stretta di mano che avrà il sapore nuovo di una condivisione affettiva già inaugurata nella relazione terapeutica su Skype. Personal Trainer nei video su Youtube che trasmettono il loro carico di vitalità nel sorriso con cui ci accompagnano nelle nostre lezioni di pilates in quel “forza ti vedo, sono con te”, che nella complicità di una menzogna condivisa a fin di bene ci fa sorridere.
Mamme che cercano disperatamente di mantenere il contatto con il pediatra, con le maestre, con gli altri bambini, che inventano giochi da fare insieme virtualmente per mantenere vivo il cuore di un germoglio di socializzazione che i loro figli avevano cominciato ad esplorare al parco sotto casa: “manda un bacino alla Ele? Ciao, ciao, ci vediamo presto!”.
Figure di riferimento quotidiano che si vestono di un nuovo abito e amplificano il nostro senso di estraneità nel nuovo procedere lento e che caricano la nostra protesta alla separazione del colore più cupo della mancanza di quel che era sull’incognita di quel che sarà che ci annichilisce.
Ecco allora che il nostro sistema di esplorazione richiama alla memoria il panettiere sotto casa, che in realtà non ci stava trovo simpatico ma che oggi vorremmo tanto rivedere, così come il fioraio, il giornalaio, il nostro parrucchiere. E di nuovo sibili di entusiasmo quando anche loro nel nuovo adattamento si sono ristrutturati e ci chiedono se vogliamo che il pane, i fiori, le tinte per capelli, i libri ci arrivino a casa. Continuità materiale che ci fa sentire considerati, ricordati e lenisce la nostra mancanza affettiva.
Nuovi ritmi, nuovi momenti, nuovi spazi di incontro, che si sintonizzano sempre sulla presa in carico affettiva dell’altro, nel sostenere, proteggere, curare, mantenere vivo il nostro bisogno di attaccamento, il nostro essere legati affettivamente all’altro e che oggi è la risorsa emotiva principale che ci permette ci permetterà di adattarci con forza e coraggio agli eventi per fronteggiarli con determinazione e coraggio. Siamo tutti eroi in questa battaglia. Niente e nessuno può calpestare questo bisogno e da questa certezza TUTTI, bambini, adolescenti, adulti e anziani, possiamo trarre linfa vitale.
Riferimenti bibliografici
Bowlby J. (1975), Attaccamento e perdita, vol. II: La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino (ed. or. 1973).
id. (1982), Attaccamento e perdita, vol. I: L’attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino (ed. or. 1969).
id. (1983), Attaccamento e perdita, vol. III La perdita della madre, Boringhieri, Torino (ed. or. 1980).
id. (1989), Una base sicura, Raffaello Cortina Editore, Milano (ed. or. 1988).