Da settimane non si sente che parlare di Fake News, ovvero notizie inventate o distorte o non verificate. Naturalmente ciascuna delle parti in commedia (la stampa, i diretti interessati, le autorità, la politica) tira, in questi casi, la coperta dal proprio lato.
E così le Fake News sono indicate di volta in volta come responsabili di vere e proprie alterazioni della realtà.
Da chi?
Da chi crede di aver perso scorrettamente le elezioni, da chi ha visto (ingiustamente, a suo modo di vedere) crollare il proprio titolo in Borsa, da chi ha visto calunniosamente attaccata la propria carriera, da chi crede di essere stato ingiustamente tirato in mezzo ad una vicenda giudiziaria senza avere alcuna responsabilità.
Inevitabile dire che a volte cose del genere succedono.
La cronaca è piena di esempi.
Ma il dibattito è stato anche, c’era da aspettarselo, una occasione per ideologizzare il rapporto conflittuale tra media (stampa e TV) e internet.
Stampa e TV hanno sempre patito internet.
Il web è stato indicato come un incomodo che ruba pubblico, allontana dalle edicole e fa calare gli indici d’ascolto.
Nell’uno e nell’altro caso, con l’effetto di una drastica riduzione delle entrate pubblicitarie. Perché, come si sa, la pubblicità va dove va la gente e se la gente non sta più dalla parte dei quotidiani stampati e della TV anche la pubblicità scappa via e si sposta sul web. E internet è dominata dal più grande razziatore di pubblicità altrui, che è Google.
Riteniamo, invece, che il dibattito debba essere ricomposto, in modo più sereno, su binari più ordinari, concreti e fatti di piccole cose quotidiane.
Del resto, come si sa, dare la colpa agli altri è sempre meglio che attingere responsabilmente ai propri comportamenti, una buona abitudine che spesso aiuta a cambiare qualcosa di sbagliato per andare in altra direzione rispetto al passato.
Ad esempio, siamo sicuri che i grandi media siano scevri da Fake News?
Siamo sicuri che sia sufficiente lavorare in una testata giornalistica storica o in una grande redazione televisiva nazionale, con tanto di struttura professionale gerarchizzata, per evitare di incorrere in grossolani errori, la cui gravità aumenta con la ripetitività dell’errore, in vere e proprie Fake News capaci di alterare la percezione di fenomeni anche importanti socialmente e con implicazioni economiche di rango molto elevato?
Ebbene, vi invitiamo a vedere il video intercettato su Facebook. Un giovane, Luca Donadel, scova un software che per la modica somma di 400 dollari al mese vi svela i tracciati delle rotte di tutte le navi che solcano i mari in ogni parte del mondo.
Si scopre così che non esistono salvataggi di profughi nel cosiddetto (e mai così tanto impropriamente citato) Canale di Sicilia ovvero che non esistono nelle misure e con le modalità denunciate dai grandi media.
Si che la maggior parte dei profughi viene raccolta a poche miglia dalle coste libiche da imbarcazioni italiane, se non addirittura direttamente sulle spiagge della Libia.
Perché nessuno dei servizi di grandi network televisivi o delle grandi redazioni di quotidiani con centinaia di giornalisti non si è mai preso la briga di verificare le fonti?
Perché nessuno si è preoccupato di investigare un po’, di andare oltre la coltre formale del sentito dire o dell’effetto fotocopia nato dalla riproduzione di servizi altrui, che determinano inevitabilmente la riproduzione e moltiplicazione dell’errore originario?
Altro che Fake News.
Se le chiamiamo in altro modo ci rendiamo conto che le cosiddette Fake News sono sempre esistite.
E ancora una volta tocchiamo con mano ciò che accade in internet è esattamente ciò che accade nel mondo reale.