«Se non paghi, sei tu il prodotto». Il prezzo del gratis – essere non il cliente, ma il prodotto messo in vendita – regola da sempre del marketing, è oggi quanto mai valida per Facebook, i social, la Rete, il Digitale online e offline: in una continuità tra vita virtuale e quella cosiddetta «reale» ove qualunque gesto, comportamento, persino stato emotivo, diviene merce di scambio a fini di business. E paradossalmente, che è peggio, anche e proprio per colpa nostra. Andiamo con ordine.
La prima certezza? Facebook sa tutto di te. E vende i tuoi dati come e a chi vuole.
Giusto di ieri l’ultima news: «Facebook trova i minori che si sentono insicuri e ne rivende i dati alle aziende per pubblicità». Lo scoop di The Australian, forte delle 23 pagine di un documento privato della società, «Confidential: Internal Only», di cui la testata è entrata in possesso, mostra come il “Dio Algoritmo” identifichi, tra 6,4 milioni di utenti australiani e neozelandesi, i ragazzini – attenzione, minorenni – che si sentono «depressi, stressati, ansiosi, nervosi, stupidi, destinati al fallimento» e ne dia dati e informazioni personali in pasto a brand e aziende, per scopi pubblicitari. Più facile vendere a chi è vulnerabile: in momenti d’insicurezza, si è più sensibili alle sponsorizzazioni.
Il business vince sull’etica. E forse anche sulla legge: parliamo di minori.
Nessuno scandalo, naturalmente, per Facebook. Che, da un lato, è corsa a smentire la notizia, tentando di smontare il presunto scoop con un comunicato del 30 aprile ove precisa di «non offrire strumenti per targettizzare le persone in base al loro stato emotivo». «La ricerca», si scrive, «è di un analista australiano e serve a far capire alle aziende come le persone si esprimono su Facebook. Stiamo esaminando i dettagli perché non ha rispettato i nostri processi di revisione».
Dall’altro, però, l’azienda continua i suoi giochi. Continua a sapere tutto – e sempre di più – di te. Da sempre, da quando ti iscrivi.
L’allarme, lanciato qualche mese fa da Propublica, era tornato già da alcuni giorni sotto i riflettori grazie a The Next Web: «Facebook traccia e possiede ogni tuo dato».
E occhio: non solo della tua vita online, ma anche offline.
Facebook, la rete, ti traccia come un Grande Fratello anche dal panettiere sotto casa. E correva il 2011 quando Lifehacker dimostrò con un caso diretto – vissuto in un «grocery store» – la facilità di un processo del genere.
Se da così lungo tempo risuonano gli allarmi in rete, se tutto è così semplice, non sarà forse anche un po’ colpa o responsabilità nostra? Certo che sì.
Alla base, infatti, ci sono quelle bucce di banana – le «cretinate che ci rovinano la vita», come sono solita chiamarle nelle mie pillole di #Digital #Education, nei corsi o incontri sul tema – che noi stessi mettiamo a presupposto di certi processi.
Noi per primi contribuiamo a dare, o direttamente diamo, al ladro le nostre chiavi di casa. Parlo dei dati che noi stessi consegniamo a Facebook, inserendo fiumi d‘interessi, preferenze, orientamenti religiosi, politici e così via.
Tu nemmeno te ne sarai accorto né, tantomeno, li ricorderai: ma Facebook sì. E, con lui, il mondo: di amici o no, che possono conoscere e usare tutto di noi – ignari e inconsapevoli Scommettiamo?
Fai un check qui. Siediti prima, però: resterai sbalordito. Vuoi spingerti oltre?
Vuoi sapere davvero, fino in fondo, quel che tutti, online e offline, possono conoscere e utilizzare di te?
Continua a seguirci: la prossima volta, in anteprima, qualche tool, segreto e sfizioso (e perfettamente legale!) che con un clic ti dirà in un flash quanto la tua vita sia in piazza, alla mercé di tutti.
Non temere però: esiste anche (qualche) antidoto. Come diceva l’Ariosto: «Vengon, ma rari..»…