Il 4 febbraio 2004, in un dormitorio di Harvard, Mark Zuckerberg, aiutato dagli amici Dustin Moskovitz, Eduardo Saverin e Chris Hughes, lanciava “TheFacebook”, una piattaforma destinata inizialmente agli studenti dell’università. Oggi Facebook è una delle società che vale di più al mondo, ha stravolto la società, il modo in cui le persone comunicano e condividono informazioni, il concetto di privacy, quello di amicizia, ha cambiato per sempre l’informazione, la politica, il lavoro, rendendo sempre più labile il divario tra reale e virtuale.
Come ha fatto? La strategia di Facebook, negli anni, è stata quella di contrastare la concorrenza ampliando il proprio ecosistema con l’acquisizione di piattaforme come Instagram e WhatsApp. L’azienda, che dal 2021 si chiama Meta – in virtù di un “metaverso” sognato da Zuckerberg ma mai veramente realizzato – nel 2024 ha registrato ricavi per oltre 117 miliardi di dollari, con una crescita del 22% rispetto all’anno precedente.
Un trend di crescita che è apparso sempre uscire indenne dagli scandali e le turbolenze attraversate dal gruppo: da Cambridge Analytica, con le accuse di manipolazione nelle elezioni USA del 2017 (che costò al colosso una multa di 5 miliardi di dollari), alle incredibili rivelazioni in materia di mancata protezione dei minori da pornografia e cyberbullismo contenuti nei “Facebook papers”: l’ex dipendente Frances Haugen, attraverso migliaia di documenti interni rivelò che l’azienda era a conoscenza degli effetti negativi dei suoi algoritmi. Senza considerare che praticamente tutti gli “ex” importanti di Facebook hanno rinnegato la Piattaforma accusandola di aver “esagerato” e tradito la sua mission. Dichiarazioni che oggi assumono un valore particolarmente importante, alla luce delle recenti svolte “conservatrici” della piattaforma. Vediamone almeno alcune.
Il co-fondatore Chris Hughes, al New York Times nel 2019 dichiarava che era il momento di abbandonare il social network, perché diventato troppo imponente e troppo difficile da controllare persino per il suo ex amico: “Mark Zuckerberg non può sistemare Facebook – ha affermato – ma il nostro governo sì”. Hughes fu uno dei primi a scoperchiare il vaso di pandora della nazionalizzazione e divisione della società in più gruppi, proponendo l’idea di separare in modo netto il social network da Instagram e WhatsApp per creare più competizione e nuove linee guida.
Roger McNamee, per lungo tempo mentore di Zuckerberg, che all’indomani della prima vittoria di Donald Trump nel 2016 affermò: “A Facebook vivono in una bolla. Zuckerberg ha sempre creduto ossessivamente nella missione di connettere chiunque su questo pianeta, così tanto da giustificare ogni azione per lo scopo. Non sanno ascoltare le critiche e cercano di risolvere i problemi con ciò che li ha causati, ossia più codice, più intelligenza artificiale e soluzioni sul breve periodo”.
Brian Acton, cofondatore di WhatsApp, confluito in Facebook dopo l’acquisizione, si licenziò l’anno successivo, nel 2018, rivelando il suo rimpianto per aver venduto la privacy dei suoi utenti in cambio del profitto.
La lista di queste voci è lunga e potremmo continuare. Tuttavia, quello che interessa qui evidenziare è la capacità di capacità di Meta di innovare e adattarsi ad un mondo in continua evoluzione, dal punto di vista economico ma anche geopolitico, ignorando il dissenso anche quando proveniva dagli “ex”. Eppure, tutto questo non è stato neutro: qualcosa dello spirito e dell’idea originale e socialmente rivoluzionaria di The Facebook, sembra essersi persa a piccole dosi tra scandali e rivelazioni controverse. Cosa è rimasto del primo payoff del 2014 “Making the world more open and connected” (Rendere il mondo più aperto e connesso), che ancora echeggiava qualcosa di vagamento cyberpunk? Oppure dello slogan del 2017 “Give people the power to build community and bring the world closer together.” (Dare alle persone il potere di costruire comunità e avvicinare il mondo.)? Nulla, verrebbe da dire.
Una consapevolezza, questa della perdita della mission originale, lentamente compresa e “sentita” anche “dall’interno” della tech company. Nonostante i successi, nell’azienda sono emerse voci critiche riguardo a determinate politiche adottate. Nel 2019, un gruppo di dipendenti espresse preoccupazione per la decisione di non sottoporre gli annunci politici a fact-checking: “Le attuali politiche di Facebook in materia di discorsi politici stanno minando il nostro lavoro. I dati mostrano che la disinformazione presentata nei formati degli annunci politici è più dannosa della disinformazione diffusa in altri modi.” La lettera evidenziava il timore che la piattaforma potesse essere utilizzata per diffondere informazioni fuorvianti senza adeguati controlli. Un anno dopo, nel 2020, i dipendenti “moderatori di contenuti” sollevarono ulteriori preoccupazioni riguardo alle condizioni di lavoro e al benessere mentale: “Lavoriamo in condizioni che non sono sicure per la nostra salute mentale. Siamo esposti quotidianamente a contenuti violenti e disturbanti senza un adeguato supporto psicologico.”
Torniano all’oggi, 21° anniversario della big tech. A che punto siamo? All’indomani delle più polarizzate elezioni statunitensi, Zuckerberg ha intrapreso una serie di azioni che hanno ampliato il dibattito sulla reale mission di un’azienda come Meta. Dalla chiusura del programma di fact-checking in favore alla fine dei programmi di Diversity, Equity e Inclusion (DEI), una mossa che molti hanno interpretano come un allineamento alle politiche dell’amministrazione Trump. Parallelamente, è stata comunicata l’intenzione di licenziare il 5% della forza lavoro, pari a circa 3.600 dipendenti, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza aziendale. Mark Zuckerberg ha affermato: “Ho deciso di alzare l’asticella della gestione delle prestazioni e di eliminare più rapidamente i dipendenti con prestazioni insufficienti.”
Mentre Facebook celebra il suo 21º anniversario, l’azienda si trova nuovamente ad un bivio. Le recenti scelte strategiche, come la rimozione del programma di fact-cheking (ne abbiamo parlato ampiamente qui) e la fine dei programmi DEI (Diversity, Equity e Inclusion), sollevano domande sul bilanciamento tra libertà di espressione, responsabilità sociale e sostenibilità interna. In conclusione, mentre celebriamo i traguardi raggiunti, è essenziale riflettere sulle responsabilità che derivano da un’influenza così vasta e sull’importanza di ascoltare le voci interne che chiedono un cambiamento positivo. L’auspicio è che, nonostante le sfide e le minacce di licenziamento, i dipendenti continuino a far sentire la loro voce, contribuendo a plasmare un futuro in cui l’innovazione tecnologica vada di pari passo con l’etica e il benessere collettivo.