Le candidature dei partiti sono arrivate e molti leader si candidano e in particolare “Giorgia” in tutte le circoscrizioni che costringe lo stesso Calenda per esempio a capeggiare la propria lista ovunque (o la Schlein che fortunatamente si candida in due sole circoscrizioni) come Renzi o addirittura un Berlusconi “risorto” con un macabro cinismo nei cartelloni di Forza Italia, ben sapendo che non andranno mai a Bruxelles, ma essendo gli unici alleati europeisti di questa destra-destra. “Inciuci” populisti e inganni che si sommano.
Si può capire la mossa di marketing elettorale mettendo il solo nome “Giorgia” che certo è un’offerta di prossimità vicinale “alla pari” con l’elettore vera o falsa che sia: sarà efficace? Qui si copia il modello delle private label nel grocery dei supermercati: vestire i candidati-prodotti con il nome “Giorgia” (o “Il Generale” per Vannacci) come un brand commerciale a garanzia di una ottima qualità-prezzo vista la loro scarsa competitività del brand industriale (il partito). Ma siamo anche ad un azzardo per il Presidente del Consiglio con una mossa elettoralistica che punta tutto su questa forte “personalizzazione” per confermare il dominio sulla destra da una parte e consentire – dall’altra – l’apertura della campagna europea per imporre la propria leadership sui conservatori europei spostandoli all’estrema destra e attraendo a sè il centro popolare. Provando in questo modo a rompere la storica alleanza popolari-socialisti-liberali, ossia la “Maggioranza Ursula”, per ridisegnare una Europa nazional-sovranista, ma balcanizzata e inconsistente nel teatro globale.
Per andare dove rimane infatti del tutto oscuro. Ci si muove sul ghiaccio sulla base di poche parole chiave senza un programma per una Europa a favore di una Confederazione come semplice somma dei 27 paesi ad affermare i diversi sovranismi nazional-populisti (per 720 eurodeputati) che devono potere mantenere il loro ruolo (sempre più marginale se presi singolarmente) e depotenziando (o svuotando) la forza dell’Unione Europea.
Con Salvini che stampa sui cartelloni un forte “meno Europa”: ma allora perché andarci? Solo per versare sabbia nel motore? Chi ci aiuterà a crescere per rientrare in modo sostenibile dall’enorme debito italico e per quale mercato unico europeo dove versiamo oltre il 70% delle nostre esportazioni? Un “alleato di ferro” (o di cartone?) ad altissimo rischio per la Presidente del Consiglio che di fatto promuove un sostanziale plebiscito-referendum su se stessa quale “copertura erga omnes” per candidati incompatibili (o incompetenti?) ma altamente “fedeli” in totale assenza di qualsiasi rispetto istituzionale e di credibilità internazionale.
Una campagna insomma tutta rivolta all’interno del paese che già di per sé è una distruzione netta di capitale reputazionale internazionale. Dunque con questa traiettoria quali le compatibilità con una comune difesa e un’unica politica estera o con una comune politica monetaria, fiscale e industriale che è sottesa dal voto (astensione prima e poi finalmente a favore) sul nuovo Patto di Stabilità? Perchè secondo i report UE di Draghi (su competitività, difesa e politica estera) e di Letta (sull’unione bancaria e dei capitali) si tratta invece di accrescere l’integrazione europea (verso un modello Federale) per alimentare la crescita futura comune (di difesa-esteri, di produttività e innovazione) e salvaguardare in questo modo la tenuta del modello sociale europeo con minori diseguaglianze oltre che alimentare le risorse necessarie ad alimentare quel modello stesso (con sanità, scuola, trasporti, energia efficienti e sostenibili).
La lezione Covid e il PNNR come risposta strategica UE – secondo i nazional-populisti di Meloni – sembra essere “negata” nella sua evidenza primaria come leva di crescita federativa. Che di fatto ci porterà ad una infrazione per deficit eccessivo e tra i peggiori nel gruppo dei 10-12 paesi (Francia compresa) che subiranno questa procedura (paesi sopra il 3% del rapporto deficit-PIL con l’Italia al 7,4 il più alto dell’Unione). Essendo l’Italia quella con il maggiore differenziale disavanzo-deficit e dunque con il maggior bisogno di dare una spinta alla crescita compresa una acconcia politica salariale (anche con salario minimo) dato che siamo tra i paesi che da 30 anni non cresce più compresi i salari, diversamente da Francia, Germania e Spagna: perché non basta far crescere l’occupazione se il PIL cala e con questo la produttività e dunque la competitività. Perché rimaniamo ben al di sotto della media europea per tasso di attività femminile e giovanile.
Ma la grande spinta alla crescita dovrebbe provenire proprio dall’“allentamento” delle regole sul Patto di Stabilità che non può che essere sostenuta solo da una Europa più unita, integrata e autonoma nel teatro globale e seppure sotto l’ombrello NATO. Verso quest’ultima dovremo anche versare le “quote mancanti” non tanto per le folli minacce trumpiane ma per darci una autonomia di difesa.
Diversi dossier che richiederebbero alte competenze e non certo fedeltà che invece Meloni scambia dando in “garanzia” se stessa nel più totale vuoto programmatico e di capacità euro-parlamentari sicura dell’investitura populista-sovranista (italiana ed europea) in attesa e in bilico sul rasoio di Occam dell’esito del voto americano tra Trump e Biden pensando di “galleggiare” a lungo nel caos globale che richiede politiche di alleanza forti e durature entro una visione coerente di una Unione coesa. Gli elettori italiani accetteranno un tale scambio o si rifugeranno in tassi di astensione al voto ancora più alti?