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Euronews, chiude la versione italiana. Il Paese perde l’unica voce in lingua italiana nei media europei

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Udite udite… questa mattina, l’Amministratore Delegato della RaiFabrizio Salini, silente da molte settimane, ha mostrato segni di vita (pubblica): il quotidiano “il Sole 24 Ore” ha pubblicato una sua lettera a piena pagina, intitolata “Audiovisivi, dalla Rai 320 milioni d’investimenti”, che si pone quasi a mo’ di risposta all’intervista – che il quotidiano “la Repubblica” ha pubblicato qualche giorno fa – a Giancarlo Leone, Presidente dell’associazione italiana dei produttori televisivi, l’Apa (la sempre vivace Anica, presieduta da Francesco Rutelli, invece, tace). L’intervista a “la Repubblica” di venerdì 5 febbraio (intitolata “Leone lancia l’allarme ‘Investite sulla fiction, è la nostra eccellenza’”) era stata in verità anticipata da un articolo di Andrea Biondi su “il Sole 24 Ore” di giovedì 4 febbraio, che riportava le stesse cifre: il Presidente Apa denunciava una riduzione del budget Rai per la fiction da 189 a 160 milioni di euro…

Nel mentre, è di ieri la notizia della possibile chiusura dell’edizione italiana del canale pan-europeo Euronews, di cui Rai è stata, trent’anni fa, promotrice, e di cui ancora detiene una piccola quota di proprietà (secondo la “semestrale” del giugno 2020, la quota Rai è attualmente del 2,52 %). Il senso di questa decisione è di ardua comprensione, anche perché il costo di questo servizio è oggettivamente per Rai ormai modesto.

Le due notizie meritano essere correlate: qualcosa non quadra, emerge un’ennesima “contraddizione interna” del servizio pubblico radiotelevisivo.

Procediamo con ordine: nella lunga lettera al quotidiano confindustriale, al di là di riaffermate ovvie tesi (“la Rai c’è stata, c’è e sempre sarà al fianco dell’industria culturale italiana”; e naturale giunge l’eco delle parole del Premier uscente Giuseppe Conte, nel suo ormai famoso “discorso dal banchetto”, di fronte all’uscio di Palazzo Chigi, giovedì scorso 4 febbraio: “ci sono e ci sarò sempre!”), Salini contesta alcune cifre che Leone aveva denunciato, a partire appunto dalla riduzione da 189 milioni di euro a 160 milioni del budget destinato dalla Rai alla “fiction”. 

Salini cerca di rispondere in modo preciso, anche se emerge una qual certa confusione, tra le solite… “mele” e “pere”: “penso che il dato più significativo e rappresentativo di tale impegno siano i circa 320 milioni di investimenti complessivi che la Rai effettuerà nel corso del 2021 nello sviluppo di prodotti di fiction, film, documentari e cartoni animati e che si tradurranno in esborsi finanziari a favore del comparto dell’audiovisivo italiano. Si tratta del valore più alto negli ultimi dieci anni. Un andamento tutt’altro che penalizzante se si pensa che, nel corso del 2020 il dato era di circa 250 milioni di euro”. E cerca di spiegare meglio, sciorinando altri numeri: “anche solo facendo riferimento a Rai Spa, e agli investimenti totali per fiction, cartoni, live action e documentari gli investimenti previsti per il 2021 sono di oltre 226 milioni di euro, in crescita rispetto ai dieci anni precedenti: basti pensare che nel 2020 il budget era stato di 188 milioni di euro, nel 2018 di 177 e nel 2014 di 145. Ripeto: quello previsto nel 2021 è il maggior investimento degli ultimi dieci anni”.

Non essendo ben precisato il “perimetro” di queste cifre (basti pensare al distinguo tra Gruppo Rai e Rai spa, e si dovrebbe ragionare sulle contabilità “separate” di Rai Cinema, ecc…), si tratta certamente non di numeri in libertà, bensì di budget sulla cui serie storica (indisponibile, almeno pubblicamente) si dovrebbe avviare un ragionamento serio. 

Questi dati non risultano chiaramente ed esplicitamente nei documenti ufficiali di Viale Mazzini, né nel tradizionale “bilancio di esercizio” né nel cosiddetto “bilancio sociale”.

E nel ragionamento, dovremmo coinvolgere anche il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (Mibact), che da anni inietta nell’economia del sistema audiovisivo nazionale centinaia e centinaia di milioni di euro (soprattutto a seguito della “legge Franceschini” approvata a fine 2016), senza che nessuno si sia mai preso seriamente la briga di valutare l’effetto complessivo dell’intervento della “mano pubblica” (in verità, la comunità professionale attende la terza edizione della “valutazione di impatto” che la Direzione Cinema e Audiovisivo, guidata da Nicola Borrelli, ha affidato all’ Università Cattolica in ats con Ptclass spa, augurandosi che i risultati siano meno evanescenti delle prime due edizioni: in argomento, vedi “Key4biz” del 17 settembre 2020, “Pubblicata la relazione Fus, ma manca la valutazione d’impatto”).

E sarebbe interessante domandare a Giancarlo Leone, a fronte delle centinaia di milioni di euro di danari apportati dalla “mano pubblica” (tra Mibact e Rai), a quanto ammonta realmente l’investimento degli imprenditori privati, dato che notoriamente la vocazione al capitale di rischio dei produttori italiani non risulta essere proprio grande…

Ancora una volta, insomma, numerologie approssimative, spese in chiave di lobbying.

Leone, nella sua intervista, ha anche rivelato che il budget della neo-creata Direzione Documentari, affidata al brillante Duilio Giammaria, avrebbe un budget di 3,5 milioni di euro: è vero? (se fosse vero, sarebbe scandaloso, data la ridicola esiguità della somma)… non è vero? (e se, non è vero, a quanto ammonta realmente il budget? non è dato sapere). Eppure Salini rivendica con orgoglio l’avvio della operatività di questa Direzione, ma va ricordato che, per anni ed anni, la Rai è stata l’unica emittente radiotelevisiva pubblica europea a non essere dotata una simile Direzione. E comunque un simile budget appare assolutamente inadeguato.

Altresì dicasi per l’Ufficio Studi Rai (affidato alla guida colta di Andrea Montanari, già Direttore del Tg1), che è stato costituito soltanto nella primavera del 2019, perché imposto dal polisemico “Contratto di Servizio” tra Stato e Rai, ma non ancora dotato delle risorse minime essenziali per assegnarli un ruolo strategico nell’economia aziendale.

Rai, tra “foglie di fico” e “nozze coi fichi secchi”, tra documentari, ufficio studi, e canale in inglese per l’estero

Insomma, ri-emerge, in alcuni processi decisionali dell’attuale Rai, la logica della “foglia di fico”: si addiviene a tardiva coscienza di alcune “nudità”, e si trova una pseudo-soluzione, più di facciata che di sostanza.

Ci si augura che questa dinamica (malata) non finisca per riguardare anche la neo-istituita Direzione Rai per il Sociale (affidata all’impegnato Giovanni Parapini, già Direttore della Comunicaziona Rai), la quale sta mostrando segnali di grande effervescenza, come abbiamo segnalato anche su queste colonne.

Non è dato sapere, nemmeno in questo caso, quale sia il budget che le è stata assegnata, allorquando crediamo invece che la televisione pubblica dovrebbe rendere pubblica l’allocazione delle proprie risorse nelle varie aree di attività, in nome di una trasparenza determinata dal suo status di “servizio pubblico” giustappunto.

Non meno curioso che Salini, nella sua lettera a “Il Sole”, ringrazi Leone e l’Apa per la loro attività di lobbying nei confronti del Governo e specificamente del Ministero dell’Economia, azionista di maggioranza della Rai (la Siae – Società Italiana Autori Editori, che detiene una quota dello 0,44 %, tace), dato che qualche settimana fa il titolare del dicastero ha riconosciuto alla tv pubblica una quota del 5% del cosiddetto “extra gettito” del canone: scrive Salini che Rai recupererà nel 2021 circa 63 milioni di euro, “una cifra ben lontana dai 200 milioni ai quali si sarebbe arrivati se fosse stato riportato in Rai l’intero extragettito”, flusso che “avrebbe consentito all’Azienda di ampliare ancora di più il perimetro dei suoi investimenti”. 

L’Ad ha ragione, ma perché non ha finora fatto sentire la propria voce con maggiore incisività e maggiore coraggio?! 

Ricordiamo che in occasione della sua audizione di fronte alla Commissione parlamentare di Vigilanza, il 17 novembre 2020, il Ministro Roberto Gualteri (Pd) ha rivendicato – quasi con orgoglio – che, rispetto al “cosiddetto extra-gettito, derivante dal canone recuperato rispetto all’evasione, per il 2020 l’importo in questione è pari a circa 190 milioni, di cui 105 milioni da riversare agli altri operatori radio televisivi in base alla legge e 85 milioni (5 % del canone annuo) che rimangono allo Stato… Posso confermare in questa sede che nell’ambito della prossima Legge di Bilancio dello Stato è stata inserita una norma che prevede appunto che tale ultimo importo sia riassegnato alla stessa Rai a parziale compensazione degli oneri derivanti dalla crisi economica in atto”. 

A fronte di questo “sforzo” (tale pareva), il Ministro accompagnava alla porta l’Ad Salini ed il Presidente Marcello Foa (anch’egli silente da settimane), sostenendo che fosse “tuttavia evidente che questo intervento debba essere accompagnato da interventi e da parte del management più ampi e incisivi che puntino a un rilancio più complessivo dell’azienda”.

È un po’… paradossale – veramente! – che l’Ad della Rai ringrazi il Presidente dell’Apa per il sostegno che l’Apa ha dato alla Rai affinché le finanze della tv pubbliche non venissero ulteriormente depauperate da una normativa surreale, interpretata strumentalmente dal Governo per costringere la Rai in ginocchio: Apa sarà anche mossa da nobilissime ragioni “spirituali”, ma certamente ha interesse affinché la tv pubblica non riduca le risorse che destina ai produttori…

La lettera dell’Ad della Rai mostra una notevole debolezza di approccio, gioca “in difesa” allorquando la crisi aziendale è tale che Salini dovrebbe giocare “in attacco” le sue ultime carte (sicuramente non verrà rinnovato nel suo mandato dal Governo guidato da Mario Draghi): rivendicare con forza, e finanche fierezza, che lo Stato deve assegnare maggiori risorse al servizio radiotelevisivo pubblico, se vuole che esso svolga appieno la propria funzione istituzionale. Altrimenti, la logica è ancora quella italica delle “nozze coi fichi secchi” (come spesso siamo costretti a sostenere, anche su queste colonne).

Chiude l’edizione italiana del canale Euronews: perché?!

In questo contesto, la brutta notizia, ieri 9 febbraio (rilanciata oggi soltanto dai due maggiori quotidiani economici nazionali, “Il Sole 24 Ore” ed “Italia Oggi”) della imminente chiusura dell’edizione italiana del canale pan-europeo multilingue Euronews, lanciato nel 1993 su impulso del compianto Massimo Fichera, allora Vice Direttore Generale della Rai, nonché Vice Presidente dell’Eurovisione, e primo Presidente giustappunto di Euronews.

Il tentativo, nobile e strategico, era quello di contrastare lo strapotere informativo, ma anche politico, della statunitense Cnn. Una risposta europea, una “vision” europea. 

Il lungimirante progetto non è mai stato dotato delle risorse adeguate alle ambizioni originarie.

Si ricordi che Euronews è un canale televisivo d’informazione che copre gli avvenimenti del mondo da una prospettiva europea, trasmette in quasi tutta Europa e complessivamente in 155 Paesi in tutto il mondo. Può essere fruito in 344 milioni di case, via satellite, via cavo e grazie ad un network di 53 emittenti che irradiano il segnale in apposite “finestre” di oltre 40 Paesi. Euronews trasmette simultaneamente in ben 12 lingue: arabo, francese, greco, inglese, italiano, persiano, portoghese, russo, spagnolo, tedesco, turco e ungherese.

Il budget del canale viene stimato (fonte IsICult) nell’ordine di circa 75 milioni di euro l’anno.

I dati di audience non sono purtroppo certificati, ma – secondo stime che risalgono al 2015 – Euronews sarebbe vista ogni giorno da oltre 4,2 milioni di europei (3 milioni via cavo e satellite ed 1,2 milioni attraverso il segnale rilanciato da emittenti nazionali), a fronte di 2 milioni di Cnn International e di 1,9 di Bbc World News… Secondo una fonte ritenuta attendibile dagli investitori pubblicitari, qual l’“Affluent Report” prodotto da Ipsos, nel 2016, il “monthly tv and digital reach” segnalava queste stime: 35 % Cnn, 29 % Sky News, Bbc 27 %, Euronews 23 %, Bloomberg 15 %, Cnbc 13 %, France 24 %, Al Jazeera English 9 %, Russia Today 6 %. La stessa fonte propone altri dati in relazione all’audience europea della parte più ricca della popolazione (13 % del totale), ovvero una stima percentuale di quante persone hanno visto almeno 1 volta durante la settimana i seguenti canali: Sky News 17 %, Cnn 13 %, Bbc World News 10 %, Euronews 10 %, France 24 4 %, Al Jazeera English 3 %, H24 2 %, Russia Today 1 %…

La direzione del canale, nella persona di Michael Peters (Amministratore Delegato di Euronews) ha infatti annunciato un “piano di ristrutturazione” che prevede la cessazione dell’edizione italiana oltre che di quella in lingua turca, con il taglio di 50 dipendenti, dei quali 30 giornalisti sui 202 che operano attualmente nella sede principale di Lione e in altre sedi secondarie.

All’Italia, resterebbe un sito web di Euronews in italiano, al quale lavorerebbero 11 degli attuali giornalisti su un totale di 17, mentre altri 6 dovranno lasciare il lavoro subito con una buonuscita o in ogni caso il 31 ottobre 2021.

Per queste ragioni, ieri il canale “all news” si è fermato in tutte le sue 9 edizioni (le lingue totali sono 12) per uno sciopero indetto da tutti i dipendenti. 

Il gruppo Euronews impiega 389 salariati a tempo indeterminato, ma i suoi effettivi superano le mille unità calcolando i precari ed i “free lance”.

Euronews è attualmente di proprietà della Media Globe Networks (Mgn) del ricchissimo imprenditore egiziano Naguib Sawiris (si ricordi il magnate può vantare nella sua biografia anche il controllo di Wind dal 2005 al 2010), che detiene l’88% del capitale (nel 2015, rilevò il 53% del capitale, per 35 milioni di euro), mentre il restante 12% è ancora in mano alle emittenti pubbliche europee fondatrici e a quelle che sono arrivate nel tempo. 

Sawiris è entrato in Euronews acquisendo il 53% del capitale, e successivamente nel 2017 è entrata l’americana Nbc con un 25% delle azioni (al prezzo di 25 milioni di euro) e l’intenzione di aprirsi la strada in Europa con la “all news”. Nbc, però, è uscita lo scorso anno per realizzare un canale di sola informazione con Sky in seguito all’entrata nel proprio gruppo (Comcast) della società. Nel frattempo, le tv pubbliche si sono diluite con i vari aumenti di capitale fino a rappresentare oggi il 12 %, con la Rai al 2,5 %.

Il fallimento di un’idea culturale (mediale) di Europa

La storia di Euronews è sintomatica del fallimento di una idea “culturale” (mediale) di Europa, e dovrebbe essere oggetto di riflessioni approfondite anche da parte di chi teorizza a gran voce – e con grande retorica – una “Europa unita”.

È anche vero che Rai, dal canto suo, non ha mai rilanciato questo canale in modo serio, allorquando avrebbe avuto chance di integrarlo intelligentemente nel proprio bouquet di offerta.

È quindi la storia di un fallimento culturale strategico, dell’Unione Europea e specificamente dell’Italia, che del bel progetto fu prima fautrice. 

Ancora nel 2010, Rai era il secondo azionista di Euronews, con una quota del 21,3 % delle azioni, a fronte del 23,7 % della tv pubblica francese, France Télévisions, seguita dalla spagnola Rtve con il 18,5 %; il resto del capitale era costituito da altri 18 partner. Nel 2008, esce dal capitale il “psb” spagnolo Rtve, che cede la propria quota del 18,5 %. 

Perché cede le quote la tv pubblica spagnola? La fuoriuscita era stata in parte giustificata dall’esigenza di concentrare gli sforzi sul proprio canale per l’estero, Tve Internacional… 

E qui un sorriso (amaro) viene naturale: a distanza di decenni dalla nascita di “canali internazionali” di altre tv pubbliche d’Europa, lo Stato italico impone alla Rai di inventarsi un canale internazionale, in lingua inglese per l’estero. 

Il canale in lingua inglese rientra infatti tra gli obblighi del “Contratto di Servizio” 2018-2022. L’articolo 12 comma 3 prevede che “la Rai è tenuta a sviluppare uno specifico canale in lingua inglese di carattere informativo, di promozione dei valori e della cultura italiana, anche mediante la produzione di programmi originali e opere realizzate appositamente per un pubblico straniero, nonché volto alla diffusione dei prodotti rappresentativi delle eccellenze del sistema produttivo italiano e di opere cinematografiche, documentaristiche e televisive selezionate per valorizzare l’identità del Paese”. 

Retorica a parte, il “Piano industriale” Rai del marzo 2019 (affidato a Boston Consulting Group – Bcg) prevedeva che il canale sarebbe stato “on air” tra l’ottobre ed il dicembre 2019: a distanza di un anno, nessuna traccia. Nel corso del 2020, dovevano essere raggiunti: “struttura organizzativa a regime, “ramp-up” produzione; contenuti originali; sviluppo piano produzione per palinsesto 2021 (primo semestre 2020); intensificazione attività commerciale; chiusura accordi a copertura palinsesto 2021”. Così si leggeva nel documento “Allegato 2” del “Piano” Bcg intitolato “Progettazione per la realizzazione dei canali dedicati all’offerta estera e in lingua inglese Rai 2019-2021”. Parole al vento. Scritte sull’acqua.

Viale Mazzini cosa combina?! Alloca in bilancio una somma modesta, anzi risibile, per il canale: 30 milioni di euro per 3 anni (vedi “Key4biz” dell’11 aprile 2019, “Rai, entro l’anno in onda un canale in inglese rivolto al mondo”, a firma di Piero De Chiara e Angelo Zaccone Teodosi), e, a distanza dagli annunci e dagli impegni (contrattuali?!), ad oggi nessuno sa a che punto sia il cantiere del nuovo canale (se non che la direzione è stata affidata a Fabrizio Ferragni, già Direttore delle Relazioni Istituzionali Rai)…

Con la solita logica “foglia di fico”, lo Stato chiede alla tv pubblica di intraprendere percorsi innovativi, ma non assegna a Rai risorse adeguate, e la Rai non assegna risorse adeguate al canale. Un cane che si morde la coda.

E nel mentre, si chiude anche la versione italiana di Euronews

Garavini (Italia Viva): se chiude Euronews, “il Paese perde l’unica voce in lingua italiana presente nel panorama dei media europei”

La senatrice Laura Garavini (esponente di Italia Viva, Vice Presidente della Commissione Esteri) ha presentato un’interrogazione ai Ministeri degli Esteri e dello Sviluppo Economico, denunciando che, a seguito del taglio drastico previsto dal piano di ristrutturazione, “la redazione italiana non sarebbe più nelle condizioni di garantire un servizio di qualità. E il Paese perderebbe l’unica voce in lingua italiana presente nel panorama dei media europei. Una perdita che avrebbe ricadute amare, in una fase cruciale per lo sviluppo dell’Italia e dell’euro”. 

Chi risponderà al suo appello, nel nuovo Esecutivo guidato da Draghi?!

In sintesi, dalla lettera di Salini “in risposta” (sic) a Leone alla chiusura dell’edizione italica di Euronews: governo nasometrico della politica culturale e dell’economia mediale. 

Logiche del tipo “armiamoci e partite”… (si ricorda che l’espressione la si deve a Olindo Guerrini, scrittore ravennate di fine Ottocento, e venne spesso applicata – dai detrattori del regime – ad una qual certa filosofia mussoliana, ma è ancora oggi efficace per definire l’atteggiamento furbesco di chi suole scaricare ogni responsabilità per i fatti che accadono).

Se Mario Draghi metterà mano al “dossier Rai” (dubitiamo che in verità rientri tra le sue priorità), si renderà conto di come la televisione pubblica italiana sia stata gestita, negli ultimi anni soprattutto, con logiche distanti anni-luce non dalla “tecnocrazia”, ma del più elementare “evidence based policy making”.

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