La bella Eco era una ninfa delle montagne con una spiccata attitudine per il pettegolezzo: inondava di parole chiunque avesse a tiro, senza fermarsi un secondo. Zeus, padre degli Dei e dei fedifraghi di tutto il mondo, decise di sfruttare la peculiarità della giovane per intrattenere sua moglie Giunone nel corso delle mille scappatelle che era solito fare, talvolta sotto forma di pioggia dorata, talvolta tramutandosi in cigno o in toro. La Regina, accortasi dell’inganno, scaglio un maleficio sulla Oreade e così la condannò a ripetere in eterno solo le ultime parole che le venivano rivolte e non una sillaba in più.
La rubrica EntARTainment, ovvero libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.
La maledizione fu terribile, ma ciò che accadde dopo fu ancora peggio.
Eco scorse nel fitto di un bosco Narciso e se ne innamorò perdutamente; lui, in un primo momento, ricambiò le attenzioni della ninfa, almeno finché non fu esasperato dal suo atteggiamento che riteneva fosse di scherno: quel suo ripetere solo ed esclusivamente le sue ultime parole, quale sciocchezza! «Ciao, chi sei?» «Sei», «Come ti chiami?» «Chiami!». Insomma, per farla breve, sentendosi gabbato, il ragazzo la allontanò per sempre e lei, struggendosi d’amore, si lasciò morire di fame e di sete; ma quando il corpo fu completamente consumato, la voce rimase, l’eterno maleficio della sovrana dell’Olimpo non poteva estinguersi così facilmente e ancora oggi, quando andiamo a fare una scampagnata in montagna, se urliamo qualcosa Eco ci risponde, poiché solo la sua voce ha resistito alla morte e ai millenni.
E quante sono le voci che ancora ci parlano, pur non avendo più un corpo? E quante sono state le voci che hanno abbandonato il proprio corpo per prestarsi alle labbra e ai gesti di un altro?
L’Italia è il paese del doppiaggio e dei doppiatori, questo si sa! E’ un eccellenza “made in Italy” un vecchio retaggio fascista che ha subito una dantesca legge del contrappasso (ma questo lo vedremo più avanti).
All’inizio, con il cinema muto le possibilità di esportare i propri prodotti su scala mondiale era una solida certezza per le major, quelle americane, le leader del settore. Con l’avvento del sonoro, però, larga parte del mercato europeo correva il rischio di essere tagliata fuori dalla strategia distributiva delle imprese di produzione e l’impatto avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche sulle finanze delle aziende. Mercati come l’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna (tra maggiori acquirenti di prodotti audiovisivi nel periodo del muto) correvano il rischio di dover essere depennati per sempre dai libri contabili della Warner, della MGM, della Fox e della Paramount. In quel duro periodo di interregno, tra l’avvento del sonoro e l’invenzione del doppiaggio, queste case di produzione fecero letteralmente i salti mortali per non perdere terreno nel vecchio continente e così, quasi tutti i loro film, venivano girati tre, quattro volte, e ognuna di esse veniva eseguita in una lingua straniera diversa. Il caso più celebre è forse quello di Stan Laurel & Oliver Hardy (“Stanlio e Ollio”) che recitando nella nostra lingua il loro primo film sonoro crearono involontariamente un marchio di fabbrica, quella parlata così buffa che obbligò i loro futuri doppiatori (tra cui anche Alberto Sordi) a parlare con uno strano e altrimenti ingiustificabile accento inglese, uno degli elementi di maggior comicità per il pubblico dello Stivale.
Se gli attori principali erano supportati da gobbi per far fronte alle difficoltà date da una nuova lingua nella quale recitare le proprie battute, i personaggi secondari venivano spesso reclutati tra gli immigrati negli States di madre lingua italiana, tedesca, etc. e quando anche questa pratica non era possibile si provvedeva ad un doppiaggio “in camera” elementare e a tratti teneramente ingenuo: l’attore muoveva le labbra senza proferire suono o parola e, dietro alla macchina da presa, qualcun altro recitava le sue battute nell’idioma prescelto per la replica. Malgrado si possa rimpiangere il folklore di queste strambe soluzioni produttive, il doppiaggio fu inventato di lì a poco e per qualcuno fu una vera e propria manna dal cielo. Da una parte i producers a stelle e strisce, dall’altra i Fascisti e i nazionalisti di tutta Europa. In Italia, per volere di Benito Mussolini, gli studi di doppiaggio divennero depositari della conservazione della lingua italiana e con tutte le limitazioni alle quali erano sottoposte le pellicole estere, quella di appiccicare una voce nostrana sulla faccia dei divi di Hollywood era l’unica soluzione per permetterne la diffusione nei nostri cinema.
Ed ecco il contrappasso dantesco: anni dopo, ci troviamo a fare i conti con il “doppiaggese” ovvero quella lingua che abbiamo appreso dalla traduzione letterale delle battute scritte in inglese. A volte per necessità di durata del parlato, altre volte per la sincronizzazione con il labiale degli attori, altre ancora per pigrizia dei traduttori, il parlato degli attori americani ha snaturato la nostra lingua, creando una sorta di seconda via fatta di “Assolutamente sì” di “Fottutissimi” di “Bastardo” e ancora di “dammi altri cinque minuti” o, addirittura, una seconda via nella quale abbandoniamo il sistema metrico decimale per adottare le “dozzine”; tutto ciò è frutto della traduzione di “Absolutely”, “Fucking”, “Bastard”, “Give me five minutes more” e “Dozen”. Insomma, con buona pace del Duce e della sua purezza linguistica, con il doppiaggio abbiamo dato il via ad una mutazione transgenica del nostro idioma che ci ha portati a parlare in maniera molto, molto diversa dai nostri nonni. Tuttavia, il doppiaggio ha anche impedito che apprendessimo le lingue straniere, ed esistono studi che dimostrano che nei paesi nei quali il doppiaggio non è così diffuso esiste una maggior conoscenza dell’inglese.
Quindi, doppiare è un bene o un male? Abbiamo avuto più vantaggi o più svantaggi da questa pratica nata sotto l’egida del dio dollaro e del nazionalismo più ermetico?
Persino un colosso come Netflix, nel corso di una delle ultimissime presentazioni della piattaforma italiana in arrivo ad ottobre con un catalogo sterminato di titoli, non è riuscito a dirimere la controversa disputa e così i contenuti originali dell’azienda verranno proposti ai fruitori in doppia versione, con il doppiaggio in italiano (realizzato ad hoc) ed in lingua originale per i puristi, con sottotitoli sia in italiano che in altre lingue.
Certo, le difficoltà comunicative che la maggior parte dei nostri connazionali incontrano all’estero depongono a sfavore delle sale buie e piene di microfoni, ed è innegabile che ogni adulterazione dell’opera originale snaturi del tutto o in parte il prodotto, ma avremmo davvero rinunciato a cuor leggero ai Ferruccio Amendola, agli Oreste Lionello, ai Tonino Accolla che hanno riempito le nostre case e le nostre sale con la loro inconfondibile timbrica?
Dei doppiatori citati non ci rimane che la voce, come nella triste storia di Eco, tuttavia, come la ninfa, li sentiamo ancora vivi e vicini a noi, al nostro immaginario, alle nostre emozioni.
Con questo articolo, noi “senza voce”, scrittori digitali, vi salutiamo, sperando che in questi mesi abbiate apprezzato le nostre pubblicazioni, abbiate tratto spunti importanti per il vostro lavoro e, quando possibile, vi siate stupiti nello scoprire come le cose nel corso della storia non siano mai cambiate, dall’ottocento a oggi o addirittura dall’epoca classica al duemilaquindici. L’appuntamento con EntARTainment è fissato per Settembre, nella speranza che in voi cresca l’attesa di leggerci così come in noi crescerà certamente la voglia di scrivere ancora per voi. Buone vacanze!