La leggenda narra che al suo ritorno in Francia, un soldato appartenente ad uno dei reggimenti Napoleonici che a Waterloo pugnarono contro Prussiani e Inglesi, fosse strenuamente convinto che i Francesi avessero vinto quella battaglia. Usandola come garanzia di attendibilità, sosteneva a ragione di essere stato presente, avversava qualsiasi tipo di spiegazione logica che gli venisse fornita dai connazionali che, pur non essendo stati suoi commilitoni, evidentemente avevano avuto un accesso “migliore” alle informazioni.
La rubrica EntARTainment, ovvero libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.
Eppure, il povero militare, a Waterloo, c’era stato davvero! Aveva visto quei visi, la cavalleria, le navi, il suono della bombarda. Tuttavia, come la leggenda tenta di dimostrare, trovarsi sul luogo di un avvenimento non costituisce sempre condizione necessaria e sufficiente per avere una corretta percezione dei fatti!
Bisogna saper leggere la realtà; viverla “soltanto” può essere fuorviante.
Infatti, sin dalla nascita del cinematografo, le immagini sono sempre state impiegate affinché divenissero “documento” della realtà.
Sono vicende di due secoli or sono, ma il retaggio di quei propositi è qualcosa di cui beneficiamo ancora adesso. Pensiamo ad un Atlante per immagini e ci vengono in mente i mille siti internet e dispositivi dai quali possiamo aprire una finestra su qualsiasi punto del globo, qualsiasi usanza, danza o strano rituale, di popoli e nazioni distantissimi dalle nostre per geografia e cultura. Questi progetti presero le mosse dalle potenzialità che alcuni uomini videro nel nuovo mezzo: la macchina da presa.
Così, alla mise en scène fotografata, si affiancò una tipologia narrativa che negava assolutamente gli elementi di finzione e puntava a raccontare la vita, appunto documentandola.
Quella fu la nascita del Documentario.
Il documentario è uno dei generi certamente più trasversali ed universali che si possano concepire: televisivo, d’autore, espositivo, storico, con inserti di finzione, etc; e sicuramente è uno dei generi in grado di riservare maggiori sorprese al pubblico e agli addetti ai lavori, in materia di incassi e successo nelle sale.
Due anni fa, il Maestro Bernardo Bertolucci e la sua compagine di colleghi di fama internazionale, capitanando la giuria del Festival di Venezia, stupì il mondo conferendo il Leone d’Oro, per la prima volta nella storia della kermesse lagunare, a Gianfranco Rosi ed al suo “Sacro GRA”. Qualche anno prima il film di Pietro Marrcello “La Bocca del Lupo” non solo ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti ma ha rappresentato un vero e proprio caso di scuola anche sul versante degli incassi e delle teniture grazie al coraggio del distributore e di una nutrita pattuglia di sale di qualità.
Sembrava si fosse aperta una nuova stagione per questo genere, sembrava davvero che i lauri del Cinema con la “C” maiuscola fossero stati finalmente riconosciuti anche a questa tipologia narrativa che ingiustamente viene considerata dai meno accorti come disciplina ancillare del cinema da tappeto rosso e gossip.
Ed invece, a qualche anno di distanza, sarebbe forse opportuno impugnare nuovamente le armi per scongiurare la “Waterloo” della pellicola non recitata. Un comparto che produce centinaia di opere all’anno che grazie alla digitalizzazione e alla multiprogrammazione potrebbe trovare un forte rilancio giocando un ruolo importante per allargare e far crescere il pubblico.
La riflessione parte dalle premiazioni avvenute qualche giorno fa per Doc/it Professional Award.
L’evento organizzato dall’Associazione nazionale dei documentaristi presieduta energicamente da Agnese Fontana ha visto salire sul gradino più alto del podio uno dei giovani vanti della nostra industria audiovisiva, Roberto Minervini, un giovane in grado di indagare luoghi e fatti con uno sguardo personale, oggettivo e, allo stesso tempo, non lesinando sulla bellezza del formato e sulla spettacolarità del racconto. Reduce dalla “battaglia” di Cannes, dove non ha beneficiato di tutta la meritata popolarità, nemmeno in patria, per via dei giganti (Garrone, Moretti, Sorrentino) coi quali si è trovato a condividere l’esperienza festivaliera.
Ma, oltre a Minervini, i titoli e gli autori che hanno preso parte alla premiazione sono molteplici e a tutti spetterebbe una menzione particolare, proprio per l’impegno profuso nella difesa e nella diffusione di un genere cinematografico nel quale, in Italia, si sono cimentati (codificandone parte del “galateo”) illustri maestri del grande schermo del calibro di Ermanno Olmi e Vittorio De Seta.
Da “SmoKings” di Michele Fornasero (vincitore del premio del pubblico) a “Dal profondo” di Valentina Pedicini, passando per “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi a “The Stone River” di Giovanni Donfrancesco, possiamo assistere alla riprova che il Documentario, nel nostro paese, è cosa seria!
Ed anche i documentaristi, a parlargli, ti danno l’idea di appartenere ad una sorta di fratellanza di mutuo soccorso; fieri e preparati cineasti che non rinunciano alla sfida di fermare in fotogrammi volti, avvenimenti, luoghi lontani e meritevoli di essere scoperti e apprezzati da tutti attraverso l’occhio della camera.
Ma se l’industria cinematografica langue in tutte le sue molteplici declinazioni e sfaccettature, non dovremmo farci carico di tutelare questo genere che (salvo in alcuni casi) non riesce ad attrarre ogni volta il grande pubblico in sala? Non dovremmo tutelare questi sguardi, questi autori, attraverso finanziamenti ad hoc, incentivando e sostenendo queste opere sui mercati internazionali, creando le condizioni per un rapporto più equilibrato con la committenza televisiva in attesa che diventi sano e robusto come i suoi fratelli e che i mangiatori di pop-corn si educhino, acquisendo il gusto di fruire di questa vita vera, proiettata su grandi teli bianchi?