«L’attore deve stare accanto al personaggio» recita enigmaticamente l’attrice Margherita Buy mentre interpreta una regista nell’ultimo film di Nanni Moretti, film nel quale lo stesso regista veste i panni dell’attore, ammonendo un attore che interpreta la parte dell’attore (John Turturro) nel film che stanno girando per finta all’interno del film vero. Una sorta di Effetto Droste al quale il cinema ci ha abituato e che conosciamo col nome di “metacinema”. Sembra impossibile resistere alla tentazione di rappresentare la finzione nella finzione, sembra ineluttabile autorappresentarsi per ciò che si è, almeno una volta, ovvero “ipocriti”.
La rubrica EntARTainment, ovvero libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.
Gli “ypokritès”, per gli antichi greci, erano coloro i quali raccontavano in prima persona storie fantastiche e sentimenti inusitati attraverso una maschera che, tra le altre funzioni sceniche, aveva il merito di amplificare la voce del portatore in quel periodo storico lunghissimo che l’umanità trascorse senza mezzi di amplificazione. Questi mascherati, insomma, inscenavano drammi e situazioni nelle quali non erano direttamente coinvolti o che non si erano mai verificate, fingevano di essere ciò che non erano, di esperire ciò che non provavano; questi erano gli attori del teatro greco e l’etimologica derivazione del termine che in italiano associamo alla falsità ed alla menzogna finalizzata ad uno scopo (ipocrisia, n.d.a.) fa sorridere e pensare.
L’attore è dunque un ipocrita “filologico”, ma è anche una persona!
Per millenni e millenni, gli attori si sono avvicendati sui palcoscenici di tutto il mondo: la storiografia riporta che, in Occidente, il primo attore in assoluto fu il greco Tespi, e divenne tale in un giorno ben preciso, il 23 Novembre del 530 a.C., quando invece di raccontare al pubblico le sue storie in terza persona, scelse di fingersi protagonista delle stesse ed adottò come modalità narrativa quella in prima persona. Ma di strada ce n’era da fare, e furono i posteri a codificare il ruolo e il numero degli attori da disporre in scena. I Romani, gente sanguigna e godereccia, pescavano i loro attori tra gli schiavi e conferivano ad essi un rango pari a quello degli infames. Lo spettatore romano, se la messinscena non incontrava il suo gusto, poteva manifestarlo in maniera plateale e molto teatrale con il lancio di ortaggi e di umiliazioni pubbliche ai danni del povero interprete (i greci, per la cronaca, erano caratterizzati da più savoir-faire).
E finalmente arrivò il Medioevo che spense la luce sul mondo, figuriamoci quella nei teatri! Bandendo ogni sorta di manifestazione pagana, di rappresentazione derivante dal vecchio credo non cristiano, cancellarono anche il ruolo dell’attore. Gli histriones non avevano più alcuna funzione nel nuovo ordine costituito e così, ben presto, il mondo si dimenticò della loro esistenza. Ma la Chiesa di quei tempi, si sa, era un po’ pasticciona, e non volendo reinventò la recitazione: furono i preti e gli ordinati che, senza saperlo, durante le funzioni liturgiche, assunsero il ruolo che a lungo era stato degli “ipocriti”.
Certo, al posto del “miles gloriosus” adesso parlava l’Arcangelo Gabriele, e al posto dell’emiciclo del teatro il pubblico si disponeva in fila lungo le navate delle basiliche, ma all’osso il “teatrino” era lo stesso.
Il Cinquecento, con i suoi colori e le sue ghirlande, col fiorire dell’umanesimo, riconsegnò l’arte della recitazione agli umili sottraendone il monopolio al dramma Cristiano; per questo motivo, ancora una volta, la Chiesa di espresse duramente contro questi straccioni girovaghi che stavano codificando, proprio in quegli anni, la forma di rappresentazione che ai posteri diverrà nota col nome di “Commedia dell’Arte” (e che nel 1997 fruttò un Nobel ad un nostro illustre connazionale).
L’illuminismo e la rivoluzione industriale furono le prime stagioni felici dopo lunghi secoli di attesa per questi saltimbanchi che avevano scelto di mentire per divertire tanto gli ultimi quanto i Re, cimentandosi in una elargizione di allegria democratica e trasversale che dura ancora oggi.
Nell’Ottocento l’attore divenne simbolo, la sua visibilità corrispose al merito di essersi ritagliato quel posto nel mondo. L’attore faceva un lavoro concettuale che lo esponeva in prima linea, era bello e virtuoso e, nel periodo denominato del “Grande Attore” (1855, ca.) nacque il divismo così come lo conosciamo oggi.
Il volto di un attore, il suo nome, può avere la forza di trascinarci al cinema a vedere un film brutto. Spesso confondiamo la bravura dell’attore con la bellezza del personaggio, operando una sovrapposizione dei due aspetti che giova all’interprete anche se la performance in sé non è certo delle migliori (pensiamo a Reeves in Matrix!). Anche l’industria lo sa e sa che val bene la pena spendere un quarto del budget complessivo del film per accaparrarsi il volto noto di turno, magari lesinando sugli altri reparti. L’unico problema, quello che sembra sempre più palese, è che lo star system, quello che conta e soprattutto quello italiano, è composto da appena una ventina di persone e, consequenzialmente, vedendole in ogni ruolo e calate in ogni contesto, smettiamo di “empatizzare” col personaggio, con la persona, e riconosciamo solo il nostro amato “ipocrita”.
Forse, il cinema dovrebbe evolversi e superare il retaggio millenario dal quale proveniamo e cercare volti e forze nuove, un po’ come avvenne nel neorealismo ma con più scientificità di criterio.
Il mondo è affamato di storie e le storie vengono raccontate dagli attori.
Come soleva affermare Benjamin, l’attore è un eroe per l’uomo contemporaneo perché, mentre alla gente comune, nel corso del lavoro quotidiano di questa nuova epoca viene richiesto di annullare la propria umanità al cospetto della “macchina” (macchina industriale, computer, n.d.a.) per essere più efficienti, all’attore viene richiesto il contrario, viene richiesto di mostrare la sua umanità nel modo più autentico possibile proprio di fronte ad una macchina (da presa, n.d.a.) per farsi medium del suo pubblico, per farsi eroe liberatore degli istinti e dei sentimenti più sopiti.
Salvaguardare gli attori significa salvaguardare anche noi stessi e i nostri sentimenti anche perché, a voler essere sinceri, chi di noi almeno una volta nella vita non è stato tacciato di ipocrisia?