Il 26 novembre, l’Article 29 Working Group ha pubblicato le linee guida per l’implementazione della sentenza della Corte di Giustizia sul diritto all’oblio, così come preannunciato già lo scorso settembre.
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Il parere contiene, innanzi tutto, una precisazione importante sull’ambito territoriale interessato dalla decisione Google Spain. Difatti, sebbene la sentenza trovi applicazione esclusivamente agli operatori comunitari, ciò non significa che dovranno essere deindicizzati solo i nomi di dominio con top level domain europeo (ad esempio: .eu; .it; .co.uk; .fr; ecc.), ma anche i domini generici, come .com, .net, .org e così via discorrendo.
Un’importante novità riguarda anche l’avvertenza riportata in calce alle pagine dei motori di ricerca, con cui si avvisano gli utenti che i risultati potrebbero essere incompleti a causa delle richieste di deindicizzazione avanzate da altri utenti. Il Working Group, prudentemente, suggerisce che tale statement sia presente sempre, e non solo in taluni casi: in questo modo, si evita di ingenerare una forma di curiosità morbosa da parte degli utenti (“quali informazioni non riesco a visualizzare?”), che ben potrebbe essere soddisfatta effettuando la medesima ricerca su motori di ricerca non europei (tra i tanti, il cinese Baidu o il russo Yandex, liberamente accessibili e consultabili dall’Europa).
Il parere conferma il ruolo marginale e subordinato assegnato ai gestori delle pagine web da deindicizzare: nei confronti di questi ultimi non sussiste un obbligo di informazione preliminare né da parte degli utenti, che si accingono a formulare una richiesta al motore di ricerca, né da parte dei motori di ricerca stessi, che non sono tenuti – come caldeggiato da qualcuno – ad informare della richiesta di deindicizzazione. L’unica eccezione è data dall’ipotesi in cui il motore di ricerca, al fine di ricostruire i fatti e di ponderare il bilanciamento degli interessi coinvolti, chieda ulteriori informazioni al gestore della pagina.
Modelli di richiesta di rimozione
Un chiarimento interessante riguarda i modelli di richiesta di rimozione dei risultati: la sentenza – precisa il Working Group – non impone agli utenti di utilizzare i form offerti dai motori di ricerca, potendosi utilizzare anche strumenti di comunicazione alternativi. Una soluzione che appare in linea con la legislazione vigente, che non richiede forme particolari per le istanze presentate dai soggetti interessati cui si riferiscono i dati personali, ma che potrebbe determinare un aggravio dei tempi nell’evasione delle richieste e dei costi per gli operatori. Non può non osservarsi, d’altro canto, che i modelli limitano – al fine di consentire una rapida gestione delle segnalazioni – la possibilità degli utenti di manifestare le ragioni per cui un determinato collegamento dovrebbe essere rimosso: basti osservare il modello di Google, il cui box relativo può contenere al massimo mille caratteri.
Archivi dei quotidiani
Il diritto alla cancellazione non abbraccia, poi, i motori di ricerca interni alle pagine web e, in particolare, gli archivi dei quotidiani. La questione, nel recente passato, aveva interessato sia la Cassazione che il Garante privacy ed era stata risolta imponendo alle testate editoriali di impedire l’indicizzazione degli archivi storici online ovvero di adottare le opportune misure tecniche per tutelare il diritto all’oblio, in special modo nei confronti dei soggetti coinvolti in casi giudiziari.
Le ultime pagine delle guidelines sono dedicate ai criteri che i motori di ricerca dovrebbero adottare per selezionare i contenuti da deindicizzare. Il Working Group, preliminarmente, osserva che tali criteri dovrebbero essere resi pubblici dagli operatori; lo stesso vale per le statistiche, che dovrebbero essere più puntuali di quelle sinora diffuse.
I criteri dovranno essere flessibili e letti alla luce del principio fondamentale dell’interesse pubblico all’informazione. Il bilanciamento tra il diritto alla cancellazione dei singoli e il diritto della collettività a sapere è il nodo gordiano partorito dalla sentenza Google Spain: una problematica alla quale il Working Group prova a porre rimedio, delimitando con steccati che, tuttavia, potrebbero, da un lato, rivelarsi poco elastici e, dall’altro, rischiano di assegnare ai motori di ricerca (forse loro malgrado) il controllo assoluto della circolazione delle informazioni sulla rete.
Ma quali sono questi criteri suggeriti dalle linee-guida?
Innanzi tutto, i requisiti soggettivi del soggetto interessato. Deve trattarsi di una persona fisica (anche a livello nazionale, le persone giuridiche sono state espunte, salvo rare eccezioni, dallo spettro di tutela della legge privacy); al nome sono equiparati lo pseudonimo o il nickname, nei casi in cui consentano di risalire agevolmente all’identità della persona.
La deindicizzazione deve essere favorita in tutti i casi in cui siano coinvolti minori: la ricerca dell’interesse del minore, principio fissato dall’art. 24 della Carta di Nizza, dovrebbe essere utilizzato come parametro di lettura delle singole fattispecie.
Personaggi pubblici
La qualifica di personaggio pubblico dovrebbe, al contrario, scoraggiare i motori di ricerca dal deindicizzare i contenuti. I contorni e i confini della public figure, soprattutto in un’epoca segnata dalla frammentazione dei mezzi di comunicazione, non sono di semplice delimitazione. Le linee-guida fanno riferimento alla Risoluzione 1165 (1998) del Consiglio d’Europa, che include in tale nozione tutti i soggetti che rivestono un ruolo pubblico o utilizzano fondi pubblici, nonché tutti coloro che rivestono un ruolo significativo nella politica, nell’economia, nell’arte e nello sport: una definizione, tuttavia, talmente ampia da essere di scarsa utilità per gli operatori che dovranno intervenire.
Peraltro, considerando che la notorietà di un soggetto dipende dal contesto geografico, pare verosimile che le segnalazioni degli utenti non saranno gestite esclusivamente dalle parent company (ad esempio, Google Inc.), ma coinvolgeranno, almeno nella fase della “scrematura”, anche le società controllate operanti sui singoli territori nazionali (ad esempio, Google Italy).
Gli ulteriori criteri, invece, sono relativi all’ambito oggettivo dell’informazione pubblicata, che dovrà essere aggiornata e non eccedente gli scopi del trattamento dei dati personali, nonché completa ed accurata. Si tratta, anche in questo caso, di un nervo scoperto, che tuttavia le guidelines non chiariscono: sussiste un obbligo per il sito che ha pubblicato l’informazione di aggiornarla o di modificarla, pena la possibile deindicizzazione? A nostro avviso, la risposta a tale quesito, anche alla luce della legislazione vigente, non può che essere affermativa.
Ulteriori parametri attengono alla carattere oggettivo dell’informazione, che deve essere preferito alle opinioni personali (criterio, questo, che si presta a numerose critiche); al contesto nel quale l’informazione è stata pubblicata; all’afferenza della stessa all’ambito professionale o personale del soggetto coinvolto; alla possibilità che metta a rischio la sicurezza e l’incolumità dello stesso.
La lettura delle linee-guida non può non sollevare qualche perplessità. Si dibatte da tempo sul ruolo monopolistico e sulla concentrazione di potere nelle mani di pochi operatori e, poi, gli si riconosce un ruolo di arbitri nella selezione delle informazioni. È ipocrita far notare che i contenuti deindicizzati sono ancora disponibili e accessibili nel web: fuori dal contesto dei motori di ricerca, le notizie spariscono e cadono nel dimenticatoio.
Non si può, però, accusare Big G o gli altri OTT di questa situazione, della quale, in un certo senso, sono vittime. È la decisione della Corte di Giustizia a determinare un cortocircuito informativo, è l’affermazione di un diritto all’oblio inteso come potere di cancellare le proprie tracce a dover essere discusso.
I criteri di selezione sono solo un corollario ed una logica conseguenza ed un effetto della sentenza. Possiamo discuterne a lungo, ma, prima ancora, dovremmo interrogarci seriamente sulle sue cause e sulle sue effettive ragioni.