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eJournalism, quando un’immagine diventa icona

Che Guevara

L’espressione pigramente diffusa di ‘’civiltà dell’immagine’’ potrebbe farci pensare che la nostra società si interessa molto alle immagini.

Ma non è affatto così – osserva André Gunthert su L’image sociale in un intervento dal titolo ‘’Le portrait du Che, c’est le Che’’ (Il ritratto del Che, è il Che).

#eJournalism è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e LSDI (Libertà di stampa, diritto all’informazione).

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Tranne nel caso dell’arte, che ha sviluppato uno sguardo specifico, le immagini – aggiunge lo studioso francese – “sono quasi sempre invisibili, confuse con il loro referente: ‘il ritratto di Cesare è Cesare’, per riprendere una formula abbondantemente illustrata da Louis Marin” (semiologo e critico d’arte francese, ndr).

Accade invece il contrario, cosa rara, con un film che è stato appena proiettato in Francia su LCP (l’emittente dell’Assemblea nazionale).

Si tratta di “Che Guevara, la fabrique d’une icône”, di Jean-Hugues Berrou, che – spiega Gunthert – sceglie l’immagine come soggetto, senza confonderla con quello che essa rappresenta. Spiegano gli autori: ‘’Come un uomo politico ucciso più di 35 anni fa si è progressivamente trasformato in una immagine’’.

Il caso è esemplare – dice Gunthert -: né opera d’ arte né produzione dell’industria culturale, il ritratto del Che, il cui prototipo sarà fissato una volta per tutte nel 1968 dall’artista Jim Fitzpatrick, è il luogo di un lavoro appropriativo autonomo, un processo di produzione iconica costruito interamente dal pubblico.

Berrou, nel documentario propone una dimostrazione che, in tre scenari, disvela l’ampiezza della propaganda castrista, la costruzione del culto della personalità a partire dall’esecuzione a morte dell’idolo e, infine, terzo, la dimensione grafica di una immagine che non si riduce affatto alla foto di Korda.

Fra i vari brani del film, restano impresse le immagini degli archivi cubani, prime fonti della leggenda.

L’intervista alla figlia del Che, che racconta come non avesse riconosciuto suo padre, travisato prima della sua partenza da Cuba, quella all’istitutrice che assisté alla sua esecuzione, o quella a una boliviana che gli aveva portato una offerta per guarire la sua famiglia, costituiscono i documenti sensibili di una lenta trasformazione dell’individuo in una immagine.

L’intervento di Jim Fitzpatrick, che ridisegna l’icona gli occhi degli spettatori – continua Gunthert – è un altro momento molto forte, che finisce per confermare la metamorfosi ‘’cristica’’ dell’ideologo argentino, filo rosso della lettura di Berrou (…).

Se l’immagine di una star è la star, i component di questa costruzione iconica vengono prevalentemente prodotti dall’industria. Nel caso del Che – conclude Gunthert – la produzione industriale arriva dopo la devozione che ha circondato quell’immagine e non fa che riprodurre il motivo eroico che è stato designato da migliaia di fan o di militanti, a cui serve da schermo per meglio proiettare se stessi.

L’ immagine del Che è prima di tutto la loro immagine, quella che loro hanno scelto come emblema per meglio apparire, manifestare, essere riconosciuti. Una appropriazione che stravolge in modo sostanziale il sistema iconografico tradizionale e costituisce per questa ragione una straordinaria storia visuale.

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