eJournalism. Le donne ‘velate’, immagine perfetta dell’islamofobia sui media

di André Gunthert - Imagesociale.fr |

André Gunthert presenta una interessante analisi del modo con cui – dopo gli attentati di Parigi – i media francesi (ma il discorso vale per tutti i paesi occidentali) hanno ripreso l’ icona della donna velata trasformandola in una ‘'eco visuale perfetta del fantasma identitario che ha come orizzonte l’ invasione, la ‘sostituzione’ o la sottomissione al modello islamico'.

Désigner la dissimulation, figure de l’islamophobie

In reazione agli attentati del 7-9 gennaio abbiamo visto esprimersi una visione massimalista e revanscista della libertà di stampa, che incitava paradossalmente all’odio e all’insulto.

#eJournalism è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e LSDI (Libertà di stampa, diritto all’informazione).

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Da parte sua il tribunale di Parigi ha confermato che c’ erano dei limiti all’espressione mediatica, condannando Valeurs actuelles per incitazione alla discriminazione contro i mussulmani per la sua copertina del 22 settembre 2013 che rappresentava una Marianna velata, col titolo ‘’Naturalizzati, l’invasione che ci viene nascosta’’.

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Questa condanna conferma anche che l’illustrazione mobilitata dalla rivista di estrema destra non è una immagine come un’ altra. Elaborata nel contesto dell’ideologia identitaria, il motivo della Marianna nera è una figura esemplare dell’islamofobia, la cui dimensione polemica è stata già ampiamente sottolineata.

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Dopo una prima apparizione nel 1985, è il Figaro magazine del 21 settembre 1991 – illustrando un articolo dell’ ex presidente Valéry Giscard d’Estaing intitolato ‘’Immigrazione o invasione?’’ – a mostrare la natura doppia della figura, declinazione perversa della Marianna repubblicana sotto forma di una mussulmana identificabile per il suo velo, eco visuale perfetta del fantasma identitario che ha come orizzonte l’ invasione, la ‘’sostituzione’’ o la sottomissione al modello islamico, che si esprime con chiarezza nell’ ultimo romanzo di Michel Houellebecq1.

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Nel contesto dell’ inesorabile crescita dell’islamofobia in Francia2, la figura della donna velata non è una semplice immagine, ma uno dei principali marchi di una produzione di immagini (imagerie3), supporto dinamico di una ideologia particolarmente attiva che gioca abilmente su un ampio registro di connotazioni, come si era potuto constatare in occasione dell’ ampio dibattito sul velo islamico (che comincia nel 1989 con l’ esclusione di tre studentesse del liceo di Creil e si chiude due decenni dopo con il voto delle leggi del 2004 e 2010).

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Motivo visuale fra i più leggibili, il velo funziona come un indicatore di dissimulazione, simbolo di una propensione alla duplicità e alla furbizia, ma anche come indicatore dell’ imposizione di uno stato di reclusione e di confino. Nel contesto della rappresentazione razzista, che accentua solitamente i tratti fisici come elemento di identificazione delle popolazioni stigmatizzate (vedi qui sopra), si tratta di una evoluzione notevole, la scelta di una manifestazione culturale, ma anche di un carattere che maschera specificamente l’ apparenza di una persona. Accompagnando lo slittamento del razzismo verso forme di ostilità culturali, oltre che la cancellazione dei suoi aspetti più grossolani, il motivo del velo orienta verso un trattamento a forte componente simbolica e narrativa.

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Sottolineata da diverse manipolazioni, come il ricorso all’iconografia delle donna velata per illustrare dei prodotti sull’islam, la sostituzione sistematica del velo, o hijab, con la finestra oculare del niqab o burqa, la scelta del colore nero o ancora attraverso utilizzi fuori contesto (vedi ad esempio il tumblr Reflexe niqab) ,   questo filone di immagini assume un aspetto spesso sinistro e minaccioso. Illustratori, pubblicitari e artisti hanno ben assimilato il potenziale comico, libidinale o allarmante di questa ematica della dissimulazione o della spersonalizzazione.

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Basato su dei valori repubblicani forti, il femminismo e la laicità, il dibattito sul velo ha mostrato come questo motivo si costruisce nel quadro di una antitesi implicita con l’ ideale di una presentazione sincera e leale, di un volto aperto e visibile – o anche di un abbigliamento scollato o sexy (la dimensione sessuale infatti non è mai lontana nell’immaginario identitario, che associa facilmente in maniera inquietante una serie di retropensieri inconfessabili – la promessa di svelamento della donna orientale dissimulata e sottomessa, o quella della donna occidentale disponibile e offerta). Nell’antitesi allegorica che oppone la donna velata alla civiltà occidentale, la Femen bionda dal seno nudo che si offre ai giornalisti costituisce l’ indispensabile alter ego della Marianna nera. Si può anche verificare lo sfruttamento provocante dell’ opposizione fra niqab e la nudità o il bikini, in una versione trash dello ‘’scontro di civiltà’’.

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Non è detto comunque che il ricorso all’immagine del velo nasconda necessariamente una intenzione razzista. Il successo della diffusione di un motivo può anche essere dovuto a un utilizzo opportunista, come testimonia lo sviluppo del genere editoriale della testimonianza della vittima mussulmana4 (vedi sopra). Proprio come la vittoria di una ideologia consiste nell’ inserirsi come un referente naturale nel pensiero contemporaneo, il successo di una immagine si traduce nella sua banalizzazione e nel suo utilizzo al di fuori del contesto identitario. E’ così che si può interpretare la scelta recente dell’ umorista Sophia Aram di travestirsi indossanto un niqab per uno sketch radiofonico dedicato alla critica del presunto ‘’femminismo’’ del sovrano dell’ Arabia Saudita.    

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La normalizzazione dell’ ostilità vche si registra attualmente fino ai vertici dello Stato è un indicatore inquietante della degradazione di una situazione i cui elementi chiave appaiono fuori controllo. Malgrado, o piuttosto a causa, della sua invisibilità per ampi strati della popolazione, l’ islamofobia rappresenta ormai una sfida grave quanto l’ antisemitismo degli anni Trenta. Ed è quindi assai deplorevole trattarla alla leggera.

  1. Michel Houellebecq, Soumission, Paris, Flammarion, 2015.
  2. Thomas Deltombe, L’Islam imaginaire. La construction médiatique de l’islamophobie en France, 1975-2005, Paris, La Découverte, 2005; Abdellali Hajjat, Marwan Mohammed, Islamophobie. Comment les élites françaises fabriquent le ‘problème musulman’, Paris, La Découverte, 2013.
  3. Chiamo “imagerie” un corpus tematico coerente, dotato di una capacità generativa o virale, e cioè di una produttività che attesta e coltiva il suo successo.
  4. Lila Abu-Lughod, Do Muslim Women Need Saving? Cambridge, MA, Harvard University Press, 2013.
  5. In un articolo di denuncia tanto polemico quanto populista, Arrêt sur images mi accusa di aver voluto far ‘’tacere’’ Sophia Aram, o, ancora, di tacciarla di islamofobia. Dovrei giustificarmi per delle osservazioni che non ho mai fatto? Smentisco chiaramente le accuse che mi vengono rivolte. Un’ altra volta suggerisco ai cronisti di far riferimento ai miei testi pubblicati piuttosto che a degli estratti di conversazioni private con i miei dottorandi, citate senza autorizzazione.

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