Nell’ultima edizione di #digit14 si è parlato in un panel delle valute virtuali, in particolare dei bitcoin e di un particolare modello economico per l’editoria.
A discutere e approfondire il tema, assieme all’apporto sempre molto puntuale e caloroso del pubblico presente in sala, sono stati gli autori di due libri sul tema: Marco Dal Pozzo e Gabriele De Palma, rispettivamente autori di “#1news2cents La qualità costa: un modello sociale per il giornalismo (online)” e di “Affare Bitcoin. Pagare col p2p e senza banche centrali”. Assieme a loro sul palco nel ruolo di moderatori, giornalisti e consumatori, c’erano Vittorio Pasteris e Robin Good.
#eJournalism è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e LSDI (Libertà di stampa, diritto all’informazione).
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Di seguito, sempre preceduti da un estratto dell’intervento principale di uno dei relatori del panel, tutti i video integrali dell’incontro.
A prendere la parola per primo è stato Robin Good che ha introdotto i protagonisti del dibattito e il tema della discussione:
“Partiamo dando contesto al tema in discussione e quindi iniziamo da Marco Dal Pozzo autore di “#1news2cents un modello sociale per l’editoria”, dove, se non ho capito male, Marco è andato ad analizzare il reale valore, anche economico, di una notizia, al giorno d’oggi. Grazie alla sua testimonianza proveremo a capire quanto è importante comprendere che la scala di valore sulle notizie online non si misura in termini di euro ma di frazioni della stessa moneta e approfondiremo come poter fare dei pagamenti online e con che costi visto che si tratta di micropagamenti”.
Marco Dal Pozzo: “Il problema che ho analizzato va un po’ fuori dalle analisi per teorizzare nuovi modelli di business per l’editoria di cui si parla molto in questi tempi. Io ho provato ad analizzare il modello sociale dal punto di vista del lettore, che più che lettore definirei cittadino. Il titolo della mia ricerca contiene la risposta alla domanda: “quanto deve costare l’informazione di qualità?”. Due centesime di euro”.
Nel corso della presentazione del “fenomeno bitcoin”, che esamina nel suo libro, Gabriele De Palma incalzato da una domanda di Robin Godd, prova a spiegare l’eventuale ingerenza di Governi sulla “moneta virtuale” e racconta come tale moneta si sia diffusa nel mondo.
Gabriele De Palma: “No i Governi, anche se sono contrari, non possono impedire la diffusione dei bitcoin, non hanno strumenti per farlo. Non possono intervenire sul sistema di software nudo e puro. Possono intervenire sugli exchange, ad esempio gli Stati Uniti stanno obbligando i diffusori di bitcoin a sottostare alle regole di anti-riciclaggio. Paesi a favore dei bitcoin, in questo momento, non ce ne sono. C’è qualche Paese del Nord-Europa dove si sono diffusi con maggiore intensità, ma non per impulso diretto di qualche amministrazione. C’è stato il pronunciamento positivo di qualche personalità di qualche banca, ma nessun istituto bancario si è schierato direttamente. Pare che il problema sia la fortissima potenzialità della moneta virtuale a spaventare il sistema creditizio consolidato”.
In apertura della clip la parola torna a Gabriele De Palma che risponde alla domanda di Robin Good: “Tu cosa consigli a chi si sente “stuzzicato” dall’ipotesi bitcoin?”.
“E’ una questione molto delicata. Anche se non dovrei per me è più facile consigliare a tutti di starne alla larga. Consigliare a qualcuno di comprare con degli euro un bene dal valore così volatile, io nel mio libro non me la sono sentita e io personalmente non l’ho fatto. Se però mi venisse proposto di metter su una “server house” per “minare” i bitcoin, allora sarei d’accordo. Dal punto di vista del commerciante o dell’editore vale la pena eccome. Perché si apre una strada, un canale in più per vendere i propri prodotti e che non ha costi di gestione alti”.
Interviene Vittorio Pasteris e approfondisce alcuni dei temi del dibattito.
“Il libro di Marco Dal Pozzo ha del geniale. Ed è il classico libro non scritto dal guru che spara “belinate”, ma dall’appassionato e studioso che prova a tracciare una sua specifica via per provare a risolvere uno specifico problema. Nel programma originale del panel fra i relatori doveva esserci anche qualcuno di PayPal che come sapete, oltre ad essere un’azienda molto famosa, è anche leader mondiale nel segmento dei micropagamenti. Proprio perché il tema derivato da questa prima analisi della valorizzazione economica dell’informazione era ok alla valorizzazione ma come facciamo a pagarla questa “santa” informazione?”.
L’informazione generalista ai tempi della rete non si può più pagare. Lo sostengono tutti i relatori del panel. In particolare interviene nuovamente Gabriele De Palma:
“Quel tipo di informazione non è più vendibile. Sia perché ci sono tali e tanti competitor al giorno d’oggi che le stesse notizie si trovano ovunque e sia perché ci sono anche tanti banali escamotage tecnici per non pagare anche le notizie a pagamento. Ad esempio il Wall Street Journal ha un wall che ti costringe a pagare alcuni contenuti ma se cerchi la stessa notizia copia-incollando il titolo del Wall Street Journal e mettendolo su Google trovi la stessa notizia gratuitamente. Però lo stesso giornale riesce a non essere in situazione economica drammatica perché fornisce informazioni così specifiche e così importanti che molti utenti pur di averle subito sono disposti a pagarle. Gli viene riconosciuto un valore anche dal lettore. Per un pezzo del Corriere della Sera oggi, obbiettivamente, è difficile convincere un lettore dopo dieci anni che se lo legge gratis a sborsare anche solo 5 centesimi per leggersi il pezzo. Forse potrà esserci una nicchia di appassionati di editorialisti del Corriere che lo fa, ma notizie che si trovano gratuitamente ovunque, nessuno è disposto a pagarle solo perché le pubblica il quotidiano prestigioso”.
Il dibattito coinvolge il pubblico e si parla del ruolo della pubblicità e di quanto la pubblicità possa influenzare i giornali nel decidere di scrivere di un particolare argomento. Secondo Gabriele De Palma quando si scrive di tecnologia, in particolare di contenuti che hanno a che fare con il mondo digitale e quello della rete, tale influenza, sui giornali italiani non viene esercitata.
“Apple e Google fanno pochissima pubblicità sui quotidiani e le riviste di carta. A scrivere pezzi di tecnologia per i maggiori quotidiani italiani i trend che tirano per qualunque capo-redattore e quindi di conseguenza per chiunque scriva di tale argomento sono: “iPhone, iPad, Apple, Steve Jobs (quando era in vita), Google, Amazon” ci sono proprio alcune parole chiave, che in questo caso sono anche nomi di prodotti o di aziende, che attraggono interesse fra gli utenti. Anche se queste aziende non fanno quasi mai pubblicità sulle testate di cui stiamo parlando. I lettori sono invece convinti che le redazioni siano tutte prone nei confronti di queste aziende perché i giornalisti vengono pagati profumatamente dalle medesime aziende. Per mia esperienza vi assicuro che al Corriere non hanno un Mac, non esiste, costano troppo, ed Apple non regala computer a nessuno”.
“Un altro problema che riguarda la crisi dell’editoria, in particolar modo, di quella italiana – interviene Vittorio Pasteris – anche se ha poco a che vedere con il problema dei micropagamenti, è quello della nicchia linguistica. Noi ci lamentiamo tutti perché viviamo in un paese con circa 50 milioni di abitanti di cui oramai molti milioni non sono italiani. A questo tavolo c’è qualcuno che ha risolto il problema alla radice senza nessuna preoccupazione, mi riferisco a Robin Good. Come hai affrontato il problema Robin?”.
Robin Good: “Usando le altre lingue”. “Che detto così sembra banale – prosegue Pasteris – ma che in realtà è tutt’altro che tale. Ci sono purtroppo pochi casi in cui anche da noi il problema linguistico è stato brillantemente risolto. Ma la maggior parte delle testate si autoghettizzano con la scelta di usare solo l’italiano. C’è un esempio editoriale, secondo me interessante, di un progetto realizzato dalla Stampa di Torino che si chiama “Vatican insider””.
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