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Ecco perché il ‘Fair share’ è una tassa e non un rimedio regolamentare

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Non esiste una sola ragione economica per costringere i grandi fornitori di contenuti a partecipare ai costi di realizzazione delle reti di accesso, né direttamente pagando un contributo agli operatori telefonici.

Gli operatori di telecomunicazioni europei hanno visto in pochi anni assottigliarsi i ricavi di decine di miliardi di euro. Come conseguenza di una concorrenza a dir poco “vivace”, i prezzi finali sono calati al punto che i margini si sono progressivamente assottigliati rendendo – tra le altre cose – impossibile fare investimenti infrastrutturali. Qualcuno sta già provvedendo ad un taglio di personale piuttosto consistente. Altri pensano invece al “consolidamento”, da intendersi più propriamente come fusione tra aziende in funzione anti-crisi. E così perdono via via gli asset più strategici. Anno dopo anno, è toccato prima alle centrali, poi alle torri. Adesso una rete intera, quella storica dell’ex monopolista, è in vendita.

Allarme degli operatori

Spinti da questo scenario sconfortante, ingabbiati da impegni di investimento che spesso non si possono più onorare – nemmeno con l’aiuto pubblico arrivato attraverso i fondi del PNRR – gli operatori telefonici hanno lanciato un grido di allarme. Già al Governo Draghi chiesero aiuti in termini di abbassamento di IVA, piuttosto che risorse per una riqualificazione del personale impiegato. In molti casi, non è bastato nemmeno mettere a budget il sostegno alla domanda in forma di “voucher per la connettività”, che pure un grande ruolo ha avuto per il take up della fibra ottica.

Torna in auge l’idea della ‘fair contribution’

E’ proprio in questo contesto che abbiamo visto tornare alla ribalta l’idea di una “fair contribution”, ovvero un prelievo forzoso ai danni dei fornitori di servizi online, che molte colpe hanno, eccetto quella di non contribuire all’ecosistema di Internet. Le piattaforme – lo sappiamo – hanno da tempo riassunto tutto Internet all’interno di confini murati. Ed il valore stesso di Internet si è spostato all’interno di quei recinti economici, dai confini precisi ma di natura globale, che ormai ben conosciamo. Ed è proprio per questo che le piattaforme hanno iniziato ad essere regolate, denunciate, sanzionate. 

Qual è allora il punto problematico del fair share? Che a fronte dell’arricchimento delle piattaforme globali, c’è stato un progressivo depauperamento del business dei fornitori di accesso ad Internet, cioè quelli che curano lo sviluppo della rete di ultimo miglio. Anche le dorsali, scopriremo presto, non sono meno importanti dell’ultimo miglio, perché i nuovi servizi ad altissima capacità richiedono di avere alle spalle, delle reti di backbone con performance altrettanto adeguate.

Non c’è alcun nesso fra crescita degli OTT e declino delle Telco

Ma in tutto questo batti e ribatti tra Commissione europea ed operatori, non esiste un nesso causale che lega la crescita degli OTT al declino delle TELCO. Non c’è una sola prova che possa dimostrare che il traffico di dati generato dai primi è tale da aver causato agli altri una perdita di valore. E allora, quale relazione lega gli uni e gli altri se non una simbioticità? Eppure qualcuno intende sostenere che c’è stato un indebito vantaggio, “sine causa”, che ha fatto arricchire i colossi del digitale (CAP) ai danni degli operatori telefonici infrastrutturati (ISP). Pensate ad un carrozziere che rivernicia tutta l’auto e non solamente il parafango che il cliente ha richiesto. L’officina potrà forse chiedere un indennizzo ma il punto-chiave è che non esiste un sinallagma tra CAP e ISP, come quello che lega il cliente ed il carrozziere.

Open Internet

Tra fornitori di servizi e fornitori di accesso – al contrario – ci sono regole europee che vietano accordi in questo senso, perchè integrerebbero forme discriminatorie di traffico in violazione della neutralità della rete. Da qualche anno è infatti in vigore la regolamentazione di “open internet” che ha inteso sostituire la finalità che si intende raggiungere (internet aperta) con lo strumento per raggiungerla (la neutralità della rete). In ragione di Open Internet ed in funzione della richiesta di una “fair contribution” è dunque altrettanto improprio fare riferimento ai cosiddetti “servizi specializzati“, anche questi ben regolati a livello europeo. La “fair contribution” non è sussumibile nella fattispecie del “servizio specializzato” perché non è mai il servizio di accesso ad essere “specializzato”, ma è eventualmente il servizio online, in quanto specializzato, ad essere ammesso in forma eccezionale, dalla regolazione di Open Internet. La differenza è sottile ma è significativa.  

L’emergenza che nasce dall’esigenza di salvare alcune aziende ed i posti di lavoro può certamente portare ad una forma di rilassamento delle regole. Come ad esempio è già accaduto in materia di Aiuti di Stato. Tuttavia non esiste una sola ragione economica per costringere i grandi fornitori di contenuti – per quanto bandivori – a partecipare ai costi di realizzazione delle reti di accesso, né direttamente pagando un contributo agli operatori telefonici, e né indirettamente versando denari ad un costituendo fondo per le infrastrutture.

Non c’è fallimento di mercato che giustifichi il fair share

Ecco perchè fallisce la regolamentazione. Non perchè non abbia funzionato. Fallisce la regolamentazione perchè non è con gli occhi della regolamentazione che si può inquadrare la fattispecie del “fair share”. Non c’è, infatti, un fallimento di mercato che giustifichi un intervento regolamentare. Ma prima ancora, non si è nemmeno proceduto all’individuazione del “mercato rilevante” di cui si presuppone il “fallimento di mercato”. 

Non c’è dunque da stupirsi che in assenza di un mercato di riferimento non ci sia modo di verificarne un suo fallimento. Se il mercato rilevante fosse quello dell’accesso ad Internet, non avrebbe senso economico imporre come rimedio l’ingresso di un nuovo attore che fa parte di un altro mercato (quello dei contenuti) all’interno di un mercato diverso (quello dell’accesso). E’ bene chiarirlo. Non ci sono due versanti dello stesso mercato ma almeno due mercati, adiacenti ma distinti: il mercato dell’accesso ad Internet da un lato, ed il mercato dei contenuti e dei servizi online dall’altro.

Si può approfondire quanto si vuole la questione regolamentare legata al Fair Share, ma non sarà possibile trovare una formula che possa coesistere con gli ultimi 25 anni di regolamentazione dell’accesso.  Ecco dunque perchè la vicenda del fair share andrebbe meglio inquadrata come “tassazione” piuttosto che come rimedio regolamentare. 

Fair share come tassazione sarebbe tassa di scopo

Come tassazione, il fair share rientrerebbe in una forma di tassazione di scopo. Gli effetti indiretti di un prelievo ai danni di un soggetto che opera in un mercato, a vantaggio di un altro soggetto che opera in un altro, in assenza di un’analisi di impatto, può portare aumenti di prezzo per il consumatore finale. In particolar modo, una “tassa su internet” potrebbe gravemente impattare sulla qualità e sulla quantità di contenuti e di servizi online o incidere negativamente sul prezzo al consumatore finale. Come è già accaduto con le memorie dei computer, nella presunzione che esse ospitino materiale in violazione del diritto d’autore. Oppure il prelievo sui film finalizzato al sostegno delle sale cinematografiche che purtroppo stanno chiudendo – pur supportate da diverse forme di incentivo. Allo stesso modo, anche le Telco sovvenzionate da una eventuale tassazione sui servizi Internet si candiderebbero a curare un’infezione con un anti-dolorifico. E’ meglio indagare le ragioni profonde di una crisi strutturale, accompagnando le regole ad un percorso di crescita e di sinergia tra operatori dello stesso mercato, che ricordiamo, sono i primi a poter ridisegnare la propria proposta di servizi all’utenza finale.

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