Dal 1970, ogni anno il 22 aprile si celebra la Giornata mondiale della Terra (Earth Day). Oggi 192 Paesi al mondo, Italia compresa, aderiscono all’evento con decine di migliaia di iniziative che arrivano a coinvolgere più di un miliardo di persone.
Un’occasione, per chi è distratto, per riflettere in maniera più seria e approfondita sui grandi temi ambientali del nostro tempo: inquinamento, deforestazione, colture intensive, land grabbing, estrazione incontrollata di minerali (quindi consumi intensivo di risorse naturali).
Tutte queste attività umane concorrono ad aggravare quello che è il problema più grave: le emissioni di anidride carbonica (CO2). Negli ultimi anni tali emissioni sono aumentate del 46% su scala globale (rispetto ai dati del 1990).
Era l’ottobre del 2016 quando tutti i media del mondo riportarono la notizia che la concentrazione di CO2 in atmosfera ha superato le 400 parti per milione, con la drammatica possibilità di non poter più scendere sotto questa soglia distruttiva per molti decenni.
C’è poi da considerare un ulteriore elemento: la CO2 si produce e si importa. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale “Journal of Cleaner Production”, condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Siena e della Aarhus University, ha dimostrato che nel commercio globale sono incorporate circa 8 miliardi di tonnellate di CO2.
Una ricerca innovativa, che prende in considerazione non solo quelle emesse direttamente, ma anche quelle che importiamo tramite gli accordi internazionali. Una riflessione che ridisegna la mappa mondiale delle emissioni inquinanti.
“Uno degli effetti principali del sistema economico attuale – ha commentato all’Ansa Dario Caro, ricercatore della Aarhus University e principale autore dell’analisi- è la delocalizzazione della produzione, dai paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo. Così, oltre a ridurre i costi di produzione, si sfruttano le risorse degli ultimi, senza essere minimamente responsabilizzati da un punto di vista politico-ambientale”.
Seguendo questo ragionamento, Paesi esportatori come Cina, Russia e molti altri del Medioriente e del Mediterraneo, riducono la loro responsabilità nelle emissioni di gas serra, in quanto una parte rilevante della loro produzione è finalizzata a soddisfare il consumo dei paesi più sviluppati. “Gli Stati Uniti – ha affermato sempre all’Ansa Simone Borghesi, ricercatore dell’Ateneo senese – sono il paese che importa la maggiore quantità di CO2 ‘nascosta’ e con questa nuova attribuzione le emissioni di cui sono responsabili aumentano di circa il 15%. Da un punto di visto relativo, le nazioni che importano di più sono l’Olanda, che raddoppia la propria responsabilità in termini di emissioni, la Francia (+50%) e il Regno Unito (+35%). Questo sistema di calcolo mette dunque in luce una diversa mappatura dei flussi di emissioni inquinanti a livello mondiale che deve far riflettere sulla presunta divisione tra paesi virtuosi e non, e induce tutti noi, come consumatori finali, a interrogarci sulle responsabilità delle nostre scelte di consumo”.
Per fare un esempio, se la Cina rimane il Paese che emette più CO2 al mondo (anche se gli USA rimangono al primo posto per quota pro capite), “la sua responsabilità diminuisce se si tiene conto del fatto che la sua produzione è in gran parte dovuta all’export”. Cioè, la Cina emette così tanti veleni anche perché gran parte della produzione mondiale si è spostata lì, mentre noi abbiamo il solo compito di acquistare i beni che poi vengono immessi sui circuiti del commercio globale (generando di fatto altre emissioni di CO2).
Il Mediterraneo complessivamente ha un “consumo di emissioni” maggiore rispetto alla sua produzione. Questo è dovuto soprattutto alle importazioni provenienti da Cina, Russia e dai paesi arabi, verso Francia, Italia, Spagna e Turchia. Nel complesso, spiegano i ricercatori, “l’Italia, come quasi tutti i paesi sviluppati, è un importatore di CO2 e con questa nuova allocazione potrebbe vedere le proprie emissioni nazionali aumentate di circa un quarto”.
In base ai dati forniti dall’Analisi trimestrale Enea del Sistema energetico, nel 2016 l’Italia ha raggiunto con quattro anni di anticipo gli obiettivi europei di fonti rinnovabili sui consumi finali di energia (con il 17,6% contro il 17% al 2020), l’elettricità prodotta è stata più green grazie al maggiore utilizzo di gas (+13%) e al forte calo del carbone (-21%) e i consumi di energia sono rimasti stabili.
Sempre durante l’anno passato, le emissioni di CO2 sono tornate a diminuire in Italia (-0,8%) e gli obiettivi al 2020 sembrano a portata di mano; tuttavia, spiegano dall’Enea, “un’analisi più approfondita rivela che i target al 2030 potrebbero porre difficoltà soprattutto nel settore dei trasporti e del riscaldamento degli edifici”. L’elemento di novità che emerge dallo studio, ha spiega il ricercatore Enea Francesco Gracceva, “è proprio questo: il ‘rischio 2030’, tenuto conto che, a differenza di altri Paesi, in Italia la forte diminuzione di consumi di energia ed emissioni di CO2 degli ultimi anni è stata legata non tanto a cambiamenti strutturali, ma alla diminuzione dell’attività economica”.
Le conseguenze mondiali di un così alto livello di emissioni in atmosfera? Per prima cosa un incremento drastico delle malattie per l’uomo e quindi dei decessi (senza considerare il peso umano e sociale delle malattie invalidanti), con la concomitante estinzione di massa di molte specie animali, tra cui quelle che compongono la nostra dieta (entro il 2100, ad esempio, è attesa l’estinzione del 50% specie ittiche), poi un impennata della temperatura media entro la fine del secolo, con conseguente innalzamento del livello degli oceani, scioglimento dei ghiacciai, intensificazione della crisi ciclo idrogeologico (con fenomeni meteo estremi, alluvioni alternate a lunghi periodo siccitosi), avvio di nuovi processi di desertificazione.
In questo scenario l’agricoltura sarà difficile, la pesca non più sostenibile e soprattutto l’allevamento comporterà seri problemi etici e ambientali. Perché oltre le emissioni di CO2 derivanti dai tradizionali combustibili fossili (il 25% della CO2 emessa dai combustibili fossili al livello mondiale proviene dagli USA), ci sono quelle direttamente prodotte dagli allevamenti intensivi. Basti pensare che un bovino adulto produce in media 2,4 tonnellate di CO2 l’anno. Tutti i bovini al mondo generano in media 4,3 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno e nel 2050 si stima che “solo” questa specie animale supererà i 2,5 miliardi di capi di bestiame.