Dibattito

E se i GAFAM dessero un contributo allo sviluppo di Internet?

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Il contributo dei GAFAM alla realizzazione delle nuove reti ultrabroadband resta un tema di grande attualità nel dibattito europeo. Il tema è vivo più che mai anche in Francia, Edoardo Secchi, imprenditore, economic advisor, presidente del Club Italie-France.

Il tema del contributo degli OTT, meglio conosciuti come GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) senza dimenticare Netflix, allo sviluppo della rete internet non è acceso soltanto in Italia. Il tema in realtà ha valenza europea, ed è alquanto dibattuto da molto tempo anche in Francia. Lo fa presente Edoardo Secchi, imprenditore, economic advisor, presidente del Club Italie-France (www.clubif.com) anch’egli presente oggi in Senato alla conferenza stampa sul o alla web tax per le PMI organizzata dal presidente di Confimprenditori Stefano Ruvolo, alla presenza del capogruppo di Forza Italia in Senato Maurizio Gasparri.

E se i GAFAM partecipassero allo sviluppo di Internet?

“Gli occhi dell’Europa sono puntati sull’oligopolio di cinque multinazionali americane che regnano nel mondo della tecnologia e dell’informatica: GAFAM. Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Le loro attività generano profitti da capogiro, che non reinvestono nell’infrastruttura che permette loro di esistere: la rete Internet”, dice Secchi che in un suo editoriale di un paio di anni fa su Les Echos ma molto attuale anche oggi ha fotografato su bianco il quadro della situazione dei GAFAM in Italia, che riproponiamo di seguito, alla luce della recente elezione di Donald Trump per il suo secondo mandato alla presidenza Usa. Come si evolveranno le cose?

I GAFAM, insieme, rappresentano il 27,5% degli Standard & Poor 500. Sono i protagonisti di un settore cresciuto del 19,36% negli ultimi dieci anni. In testa alla classifica ci sono Apple e Microsoft, colossi tecnologici con capitalizzazione (nel 2022 ndr) rispettivamente di 2.550 miliardi di dollari e 1.960 miliardi di dollari, cresciute dell’84,5% e del 40,41% nel 2020. Apple è il primo titolo per capitalizzazione dell’indice S&P 500, di cui rappresenta 6,4%, seguita subito dopo da Microsoft, che rappresenta il 5,4% dell’intero mercato. Le piattaforme di comunicazione Facebook e Google seguono da vicino.

Profitti artificialmente bassi

Un fatturato che esplode da un anno all’altro, ma profitti che rimangono stranamente molto bassi… proprio come le tasse pagate al Tesoro dei paesi europei in cui hanno sede queste aziende. Esempio con Google Italia, dove la filiale italiana del colosso digitale ha pagato solo 8,1 milioni di euro di tasse nel 2021. E questo, su un utile netto prima delle imposte di soli 28 milioni di euro su un giro d’affari che tuttavia è esploso a 710 milioni di euro, rispetto ai 505 milioni del 2020. Vale a dire un aumento dei ricavi di 205 milioni in un anno, a fronte di costi aumentati di 200 milioni nell’arco stesso periodo. In questo modo, la redditività si mantiene più o meno al livello dell’anno precedente, grazie a costi che aumentano proporzionalmente all’aumento dei ricavi, e sono prevalentemente infragruppo, tramite la filiale irlandese di Google. 

Quindi, dei 682 milioni di costi della filiale italiana nel 2021, 516 milioni sono costi fatturati a Google Ireland. Costi che diventano entrate per Google Ireland, che ovviamente paga meno tasse che in Italia. Stesso processo per Google France, che ha pagato alle imprese solo 27,1 milioni di euro nel 2021, per un fatturato stimato in Francia in 2,7 miliardi di euro, secondo l’Unione delle società di consulenza e di acquisto di media (Udecam). Una “impresa” resa possibile da un regime fiscale che gli permette di dichiarare in Irlanda i redditi prodotti in Francia.

Facebook Italia ha seguito lo stesso schema. Nel 2021, i suoi ricavi sono aumentati di oltre 100 milioni arrivando a 348 milioni di euro, ma anche i costi sono esplosi della stessa cifra.
Anche in questo caso, leggendo il bilancio, si scopre che i costi per servizi di 338 milioni dello scorso anno corrispondono a 311 milioni di costi infragruppo tramite la controllata irlandese.

Un oligopolio costoso

Alcuni potrebbero dire che GAFAM crea posti di lavoro e investe in nuove tecnologie, il che potrebbe minimizzare il fatto che questi giganti non pagano quasi nessuna imposta sulle società nei paesi ad alta tassazione. Tuttavia, sebbene queste aziende abbiano apportato alcuni benefici sociali, in particolare durante la pandemia, il loro dominio ha avuto un costo. Infatti, una quota crescente del traffico internet è generato e monetizzato dalle piattaforme Big Tech, ma ciò richiede continui e profondi investimenti e pianificazione nel settore delle telecomunicazioni. Questo modello – che consente ai cittadini di beneficiare dei frutti della trasformazione digitale – può essere sostenibile solo se queste piattaforme contribuiscono adeguatamente anche ai costi delle reti.

Da anni il settore delle telecomunicazioni considera i GAFAM degli “abusivi”, che sfruttano i vantaggi delle loro reti di telecomunicazioni senza pagare alcun prezzo per il loro sviluppo e mantenimento. Gli operatori europei stanno investendo complessivamente 52,5 miliardi di euro all’anno nelle loro reti, il livello più alto degli ultimi sei anni, aumentando al contempo gli sforzi per rendere le loro reti più ecologiche.

Italia, Francia e Spagna sulla stessa linea

Italia, Francia e Spagna hanno riaffermato molto recentemente la necessità che le Big Tech partecipino agli investimenti di rete in Europa: Roma, Parigi e Madrid hanno infatti evidenziato che i principali fornitori di contenuti rappresentano il 55% del traffico Internet generato in Europa. Ciò genera costi specifici per gli operatori di telecomunicazioni europei in termini di capacità, in un momento in cui stanno già investendo massicciamente nel 5G e nel Fiber-To-The-Home. I tre Paesi europei hanno chiesto all’Unione Europea una proposta legislativa che garantisca che tutti gli attori del mercato contribuiscano ai costi delle infrastrutture digitali.

Alcuni attivisti per i diritti digitali sostengono che la decisione di coinvolgere grandi aziende tecnologiche negli investimenti potrebbe mettere a repentaglio la neutralità della rete nel mercato europeo. Dobbiamo quindi trovare un equilibrio che tuteli dal pericolo del trasferimento delle infrastrutture digitali del Vecchio Continente alle Big Tech. Come indicato nel documento congiunto firmato dai tre Paesi, dovrebbe essere possibile garantire la lealtà tra gli investitori rispettando le regole della neutralità della rete, principio fondamentale da preservare. Un possibile investimento annuo di 20 miliardi di euro da parte delle Big Tech potrebbe contribuire a generare 72 miliardi di euro nell’economia dell’Unione Europea.

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