“Avere Autorità che funzionano a dovere in questo momento è più cruciale che mai”, si osserva in un lungo articolo pubblicato la settimana scorsa dal Sole24Ore. L’autorevole voce del prof. Sabino Cassese mette in guardia contro il fenomeno della “erosione delle Autorità indipendenti”, interessate da un progressivo avvicinamento con la politica. Le sue parole ben intercettano la mia pur limitata esperienza nel ruolo di Commissaria Agcom, e non solo per via del meccanismo di selezione dei vertici o della presenza di ben due componenti del Consiglio che erano parlamentari fino al momento prima della nomina.
“La prima erosione concreta che ho potuto osservare”
La prima erosione concreta che ho potuto osservare nel corso di questi due anni è interna e riguarda i confini tra funzione di indirizzo, di competenza del Consiglio, e funzione di gestione, demandata agli uffici. Si produce quando il Presidente interviene direttamente nelle istruttorie (ad esempio quella finalizzata a integrare il suo staff) oppure “commissiona” ad un Direttore la stesura di una delibera – quella contro i “duelli” in TV – in sua vece e a latere della diversa soluzione proposta dal Direttore stesso su indicazione del Consiglio, ma che il Consiglio non arriva neppure a discutere; accade, ancora, quando si autorizza l’impiego di componenti degli staff dei Commissari nelle attività degli uffici, come nel caso della stesura del cosiddetto regolamento “Copyright”. Quando si tratta invece di staff di Commissari non allineati, un mero apprezzamento sui social nei loro confronti vale al Direttore che ha osato farlo un tentativo di repressione brandendo il Codice etico.
“Ulteriore fenomeno erosivo”
Ulteriore fenomeno erosivo, anch’esso interno, colpisce le prerogative del Consiglio ad opera di iniziative autonome del Presidente e collocate al di fuori dei casi eccezionali previsti dal regolamento. Recentemente, il Consiglio è stato tenuto all’oscuro della partecipazione di AGCOM a un “tavolo di lavoro” del Dipartimento di Sicurezza su disinformazione e conflitto ucraino, né ha potuto conoscere il testo dell’audizione svolta dal Presidente presso il Copasir sul medesimo, delicato tema, peraltro oggetto di incertezza e disaccordo interni al collegio. Stesso destino, da sempre, per le numerose audizioni presso le Commissioni parlamentari: in un’interpretazione decisamente radicale della funzione di rappresentanza esterna dell’Autorità, il Presidente ritiene di non essere tenuto a condividere con gli organi collegiali il contenuto delle dichiarazioni rese in tale sede.
“Atteggiamenti al limite della vessazione, e paradossalmente proprio in nome di quella necessaria separazione dell’attività degli uffici e del vertice che invece altre volte si dimentica”
Questa linea di condotta nel mio caso si è accentuata al punto da compromettere il pieno e indipendente esercizio delle funzioni derivanti dal ruolo che ricopro e che impone di decidere conoscendo in modo approfondito e completo i dossier. Tuttavia, le mie richieste di poter visionare in tempi congrui e/o in modo integrale gli atti dei procedimenti sono state ripetutamente rigettate da parte del Consiglio, con atteggiamenti al limite della vessazione, e paradossalmente proprio in nome di quella necessaria separazione dell’attività degli uffici e del vertice che invece altre volte si dimentica. Si tratta peraltro di prassi che si fanno tanto più frequenti quanto più i temi sono divisivi e vedono un mio orientamento contrario a quello della maggioranza: solo per citare alcuni dei procedimenti più lunghi, è il caso del coinvestimento di TIM ma anche delle trattative sindacali che hanno portato, tra l’altro, all’aumento della retribuzione del personale e all’assunzione nei ruoli dell’Autorità di alcuni componenti dello staff scelto a chiamata dai Commissari.
Come ho rappresentato anche ai giudici del Consiglio di Stato e del Tar, il processo di verbalizzazione delle riunioni ha reso necessarie continue richieste di modifica e rettifica; non sono stati inclusi né allegati ai verbali miei interventi articolati e complessi, pur a fronte di rassicurazioni in tal senso; l’accesso alle registrazioni delle riunioni necessario per le rettifiche mi è stato precluso, nonostante esse costituiscano documento accessibile per giurisprudenza consolidata; quando ne ho chiesto le trascrizioni, sono spesso arrivate incomplete.
Ma è nel rapporto con l’esterno che si fanno più incerte le linee di demarcazione e vengono meno i necessari diaframmi separatori. È paradigmatica la gestione dei flussi di comunicazione, a cominciare dall’incessante fuoriuscita di notizie riservate: dalla stampa si apprende di volta in volta la calendarizzazione e persino gli orientamenti del Consiglio in merito ai dossier più delicati. Constatata l’inerzia di Presidente e colleghi dinanzi alla mia richiesta di porre rimedio a tale pratica – vengo spesso invitata a “farmene una ragione” – mi sono risolta a smentite individuali. Una di queste mi è persino valsa, la settimana scorsa, un “accertamento” di violazione delle norme del Codice etico da parte del Consiglio: un episodio senza precedenti, che piega il Codice etico a strumento di repressione dell’unica voce dissenziente e produce un evidente conflitto di interesse, giacché i colleghi si sono riuniti per giudicare sulla condotta di una loro pari, peraltro su un tema di perdurante contrasto come il menzionato coinvestimento di TIM.
“L’espressione pubblica dell’opinione dissenziente – si è tradotta in appena 53 voti contrari su 1002 delibere approvate”
L’espressione pubblica dell’opinione dissenziente – che nel mio caso si è tradotta in appena 53 voti contrari su 1002 delibere approvate – non è atto di spavalderia o mancanza di rispetto per l’istituzione né è da considerarsi coraggiosa estrema ratio: è espressamente consentita dal Codice etico a garanzia dell’operato indipendente dell’Autorità. Nonostante ciò, si è cercato di limitare questa prerogativa in molte forme, dalla derisione a ripetute prospettazioni di “deferimento” al comitato etico, fino all’accertamento di violazione, passando per iniziative concrete dal sapore ritorsivo. La più recente: all’indomani di un’intervista per il Corriere della Sera dello scorso 3 settembre, in cui ho motivato la mia contrarietà alla citata delibera contro i confronti televisivi in campagna elettorale, il Consiglio ha improvvisamente deciso di destituirmi dal ruolo di rappresentante – unica donna – in un network internazionale, in aperta contraddizione con le esigenze di continuità del network stesso e con la prassi perseguita dalle consiliature precedenti. Il tutto in virtù di un principio di rotazione dentro organi internazionali (che però, curiosamente, si applica solo a me).
Colpisce, di contro, la disinvoltura con cui Presidente e altri componenti del Consiglio, nelle loro esternazioni sui canali più diversi – convegni, social media, persino trasmissioni televisive satiriche – oltrepassano i vincoli imposti dal ruolo, impegnando l’intera istituzione su temi sensibili o di concorrenza tra imprese regolate, entrano a gamba tesa nella politica industriale, nelle scelte del governo, nella campagna elettorale fino a mascherare con la cooperazione istituzionale forme di ingerenza nelle determinazioni del legislatore. Nessuna incompatibilità con il profilo dell’Authority, a detta dei colleghi: sostenerlo sarebbe feticismo formalista, pretestuosa polemica di una “minoranza bloccante”, quale sarei accusata di essere, colpevole incomprensione delle “regole del gioco” o candida misconoscenza delle logiche della stampa e delle sue inevitabili approssimazioni. Che non meriterebbero rettifiche neppure quando è il vertice stesso dell’Istituzione ad essere oggetto di insinuazioni sempre più insistenti circa legami con esponenti politici di primo piano, emerse proprio nel periodo in cui Agcom è stata chiamata a gestire la par condicio elettorale.
“Non me ne faccio una ragione”
Ciò a cui assisto da due anni è, in altri termini, l’incessante espressione di un ethos nel quale confusione tra organi e funzioni interne e sconfinamenti in altre sfere di competenza esterna, per riprendere le parole di Cassese, sono vissuti come dato strutturale e aproblematico. Sempre più, dunque, mi persuado che onorare il mandato ricevuto dal Senato significhi per me contribuire alla trasparenza e alla promozione di una cultura delle Autorità indipendenti, cominciando dal rifiuto di accettare la normalizzazione di certe pratiche. O di “farmene una ragione”.