Il “commencement speech” del neo-laureato Mark Zuckerberg merita davvero di essere ascoltato con attenzione. Ci dice proprio tante cose.
La prima, ovvia: il profeta della connessione globale ha capito che il vento sta cambiando e vuole salire di livello, lavorando sul piano politico. Non è un caso che si sia tolto la t-shirt per indossare giacca e cravatta.
La svolta, del resto, andava maturando da tempo. Dal podio di Harvard, Zuckerberg si è spinto addirittura fino a lanciare l’idea di un reddito minimo universale; un’affermazione che vale quanto una lectio magistralis sulla trasformazione culturale creata dalla rivoluzione digitale.
Ma come, davvero le due paroline magiche “reddito universale” escono proprio dalla bocca del fondatore di un’azienda che, insieme all’intero ecosistema Silicon Valley, evade sistematicamente (e legalmente) le tasse, in Europa come negli Stati Uniti?
E chi dovrebbe pagare le migliaia di miliardi necessari per finanziare il reddito di cittadinanza? Naturalmente Zuckerberg non lo dice. Se non fosse roba terribilmente seria verrebbe da ridere.
Meno male che Papa Francesco ha ricordato, all’ILVA di Genova, che serve lavoro per tutti, non reddito.
Altro cavallo di battaglia del discorso di laurea del creatore di Facebook è la retorica sull’innovazione unita a tecniche (da quattro soldi) di captatio benevolentiae rivolte all’audience principalmente composta dai rampolli dell’alta società americana: “Anyone taking initiative will get criticized for moving too fast, because there’s always someone who wants to slow you down”.
Bella frase ad effetto, peccato, però che non si capisce proprio chi avrebbe cercato di “rallentare” la sua di marcia: al contrario, in questi anni abbiamo visto comporsi una lunga fila di entusiasti che osannavano il potere dell’innovazione e che gridavano “largo al nuovo che avanza” senza pensare troppo alle conseguenze. Basti pensare che, in sprezzo ad ogni protocollo e ad ogni valore istituzionale, alte cariche della Repubblica Italiana hanno usato Facebook live per basse operazioni di propaganda elettorale.
Ma non finisce qui: “To keep our society moving forward, we have a generational challenge — to not only create new jobs, but create a renewed sense of purpose”.
In questa frase c’è l’essenza stessa dell’ingegneria sociale che Zuckerberg sogna di costruire: non una società di libero mercato in cui si negoziano interessi, ma un sistema in cui un’autorità superiore ti “organizza” la vita.
Ma, quando mai si è sentito che lo scopo della vita degli individui, così come delle comunità, debba essere etero-prodotto?
In quest’affermazione c’è la chiave dell’attitudine totalizzante del mondo a dimensione Facebook: l’idea di offrire un sistema che contenga, canalizzi e gestisca l’intero universo. A pensarci bene lo si è già visto nella storia; è il concetto alla base di tutti i regimi autoritari. Di solito i mezzi a disposizione erano rudimentali. Quelli dei regimi.