Basta farsi un giro online per trovare annunci e offerte di servizi televisivi a prezzi irrisori e comprensivi di centinaia, migliaia di canali. Tutti canali per la televisione a pagamento, a cui è facile abbonarsi illegalmente per pochi dollari in tutto il mondo.
C’era un’offerta su Kijiji che riportava più o meno il seguente messaggio: “Perché pagare di più, quando puoi avere oltre 3000 canali a soli 15 dollari al mese?”. Si tratta di rivenditori di terze parti che vendono pacchetti tv a pagamento commettendo un reato e dando vita ad un mercato nero di grandi proporzioni.
Un recente studio Sandvine calcola in 8,1 milioni le famiglie americane che hanno attivato abbonamenti tv pirata, il 6,5% delle famiglie degli Stati Uniti nel 2017 (che secondo Statista nel complesso sono 126 milioni di unità).
Il documento si riferisce un po’ a tutto il Nord America e propone degli scenari, soprattutto ipotizzando i diversi prezzi degli abbonamenti pirata offerti in rete.
Se il costo medio si aggira tra i 10 ed i 20 dollari, quindi assumendo un ipotetico prezzo di 15 dollari a pacchetto, ecco che moltiplicando il numero delle famiglie per il costo dell’abbonamento pirata (a sua volta moltiplicato per 12 mesi) si ottiene anche una cifra approssimata del danno complessivo apportato al mercato delle pay tv in Nord America, che potrebbe sfiorare 1,5 miliardi di dollari l’anno.
Il Report calcola invece che ogni pacchetto tv costi 50 dollari, in questo caso il danno al mercato è ben superiore e sale a 4,2 miliardi di dollari.
I servizi televisivi pirata “rappresentano una grandissima minaccia per le industrie culturali statunitensi e canadesi”, ha affermato a CBC News Dan Deeth, portavoce di Sandvine, “perché sono soldi che sono stati illecitamente sottratti al mercato legale, danneggiando le imprese che investono nel settore dell’audiovisivo, in quelle dell’intera filiera, mettendo a repentaglio posti di lavoro”.
Senza considerare altri problemi non direttamente valutabili in termini economici e commerciali: “Questi pirati rubano letteralmente contenuti che appartengono ad altri, ci lucrano sopra, occupano banda e si appropriano anche dei dati personali degli utenti che si registrano alle loro piattaforme, violando sistematicamente la privacy”.