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DigitAnomalie. Niente simboli religiosi sul luogo di lavoro. Un caso di non necessità del trattamento di dati personali

andrea monti

La sentenza della Corte di Giustizia UE che ha riconosciuto il diritto del datore di lavoro di chiedere ai suoi dipendenti di non indossare simboli religiosi è perfettamente coerente con il principio di stretta necessità del trattamento dei dati (sensibili, in questo caso).

Per minimizzare l’impatto del Codice dei dati personali, infatti, un’azienda dovrebbe limitare – se non addirittura escludere – i trattamenti estranei all’attività lavorativa. Vietando espressamente l’uso personale delle risorse aziendali, incluse mail, connettività, telefono, automobile, carta carburante e carta di credito, l’azienda può legittimamente sostenere di non trattare dati non necessari.

Da questo punto di vista, dunque, la sentenza della Corte offre un ulteriore spunto di interpretazione del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali perché consente al titolare del trattamento di non “subire” la scelta autonoma del dipendente che, indossando un simbolo religioso o politico, lo costringe a trattare dati dei quali non ha bisogno.

Saranno forse felici le Autorità nazionali di protezione che hanno una nuova freccia nella loro faretra sanzionatoria: sindacare il modo in cui l’abbigliamento dei dipendenti incide sul trattamento dei dati personale da parte del datore di lavoro.

Ma immagino le prescrizioni da fornire ai dipendenti-interessati:

In ottemperanza alle prescrizioni della normativa sul trattamento dei dati personali, questa azienda ha deciso di adottare il principio di stretta necessità per quanto riguarda il trattamento dei dati dei dipendenti. A tale scopo, al fine di evitare che l’azienda venga a conoscenza di informazioni estranee al rapporto di lavoro, i signori dipendenti sono invitati ad astenersi dall’indossare abiti o accessori – nonché dal tenere comportamenti – che possano rivelare le loro convinzioni politiche o religiose. La violazione di questa prescrizione potrà essere valutata in termini disciplinari, nell’ambito di quanto stabilito dal Contratto collettivo applicabile e condurre, nei casi più gravi, al licenziamento.

Che poi sia desiderabile o accettabile trasformare il luogo di lavoro in un carcere isolato dal resto del mondo, nel quale si può parlare solo delle cose da fare, vestiti come in una fabbrica nordcoreana, è un altro discorso. Ma non sarebbe la prima volta se, come dicevano i saggi, ci trovassimo di fronte all’affermazione cieca e pedante di norme pensate con ben altra ispirazione.

Summum jus, summa injuria, mi pare si dicesse…

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