Escluso dal cast di House of Cards, rimpiazzato – a scene girate – nel film di Ridley Scott, privato delle nomination a premi cinematografici, Kevin Spacey sta scontando un pesante “presofferto” (così in legalese viene chiamata la carcerazione preventiva, senza processo) prima ancora di sapere se verrà “aperto un fascicolo” e, soprattutto, se ci sarà una condanna per le accuse di molestie sessuali asseritamente commesse trent’anni fa.
Non entro nel merito della vicenda – che non conosco e dunque non commento – ma mi interessa, piuttosto, riflettere sull’effetto provocato dalla diffusione della notizia di queste presunte molestie sui diritti fondamentali.
Non riesco a vedere una differenza fra quello che sta accadendo a Kevin Spacey e quanto accadeva nel mondo del Grande Fratello (quello vero, non il reality):
Non appena pronte, assemblate e collazionate le correzioni da apportare a una specifica edizione di “The Times”, l’edizione sarebbe stata ristampata, quella originale sarebbe stata distrutta e sarebbe stata rimpiazzata dall’altra. Questo continuo processo di alterazione era applicato non solo ai giornali, ma anche ai libri, ai periodici, ai pamphlet, ai poster, alle brochure, ai film, alle colonne sonore, alle fotografie – a ogni tipo di attività letterari o documentazione che avrebbe potuto teoricamente esprimere una significatività politica o ideologica. Giorno dopo giorno, quasi minuto dopo minuto, il passato veniva aggiornato al presente”.*
Come nel caso del razionamento del cioccolato descritto in 1984, il sistema dei media ha attivato un incredibile processo di esecuzione della condanna all’oblio di Kevin Spacey, cancellandone la memoria da ogni dove e sostituendola con differenti ricordi.
Chi andrà al cinema a vedere il film di Ridley Scott sul rapimento Getty troverà Cristopher Plummer al posto di Kevin Spacey senza che la cosa desti il minimo turbamento. La storia è riscritta e l’ordine (morale) è stato ristabilito.
E chissà che un destino analogo non tocchi anche a House of Cards, in modo da ricostruire il valore commerciale della serie (che, senza Kevin Spacey, potrebbe così continuare ad essere replicata periodicamente sui network di mezzo mondo).
Il dato importante, ma non evidente, che emerge da questa vicenda è il pericolo che i servizi di content streaming rappresentano per la conservazione della memoria e della cultura.
Se non possediamo più i supporti che contengono le idee (libri, CD, vinili e via discorrendo) la fruizione di cultura e sapere sono nelle mani di chi vende “intrattenimento on demand”, che può decidere non solo “cosa” e “quando” possiamo vedere, ma soprattutto “se” possiamo farlo.
In altri termini, come nel mondo del Grande Fratello, siamo di fronte alla ridefinizione in tempo reale del “pensiero”, con la differenza – però – che mentre nel mondo distopico di Orwell ciò accadeva per volontà di potere, nel nostro tempo ciò che spinge la macchina dell’oblio è il desiderio gretto di non perdere soldi.
Non c’è giustificazione per quello che sta accadendo. Nemmeno quella disperata basata sul “chi avrebbe potuto prevederlo?” perché un precedente storico esiste: nel 2009 Amazon rimosse automaticamente da tutti i Kindle una copia proprio di “1984” che aveva problemi di copyright.
Affidarsi allo streaming di contenuti, dunque, libera certamente spazio nelle librerie di casa, ma sicuramente crea il vuoto nel nostro cervello.