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Digitanomalie. Decreto intercettazioni, non protegge la privacy ma è solo un clone imperfetto della diffamazione

andrea monti

Nella conferenza stampa del 2 novembre 2017 il Governo ha annunciato la nuova disciplina delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni.

Fra le varie novità, c’è l’introduzione nel Codice penale dell’articolo 617 septies che, nelle intenzioni del Governo, sanziona  chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione pur senza punire chi commette il fatto se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta ed immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca.

Questa norma ha un che di familiare nella sua formulazione, e infatti, nella sostanza, ricalca il reato di diffamazione, presente da tempo immemore nel Codice penale.

Confrontiamo dunque il testo governativo con l’articolo 595 del Codice, che recita: Chiunque, … , comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.

Ora, mettendo a confronto le due norme viene da chiedersi cosa punisca in più il nuovo reato, che non era possibile sanzionare con il solo articolo 595.

La risposta è semplice: nulla.

Il terzo comma dell’articolo 595, infatti, punisce la lesione della reputazione commessa con qualsiasi mezzo di pubblicità e dunque tramite articoli di giornale, trasmissioni televisive, post su blog o social-network. Secondo la saggia impostazione del Codice penale, dunque, non rileva il “cosa” sto diffondendo (uno scritto, un’immagine, un suono) ma il fatto che, volontariamente, sto comunicando al mondo in modo tale da offendere un’altra persona.

Ma allora che senso ha il testo voluto dal ministro Orlando?

La risposta – come il diavolo – è nei dettagli.

La diffamazione del Codice penale prevede che il reato sia commesso quando si comunica con più persone. La “diffamazione-Orlando” – come sarebbe più corretto chiamarla – invece, sanziona il reo a prescindere dal fatto che ci sia effettiva presa di conoscenza del messaggio da parte di terzi (e infatti, nel testo manca l’elemento del “comunicare con più persone”). In altri termini, secondo il ministro Orlando basta che una informazione offensiva sia disponibile (anche se non la acquisisce nessuno) perché il reato sia commesso.

Non si capisce, dunque, perché se diffamo qualcuno tramite un post in un blog sono punibile solo se qualcuno legge ciò che ho scritto (e spetta al diffamato l’onere della prova), mentre se sullo stesso blog pubblico una registrazione dovrei essere condannato (a una pena più pesante, peraltro) a prescindere dal fatto che qualcuno se ne accorga.

La “diffamazione Orlando”, quindi, scardina la nozione tradizionale di questo reato, trasformandolo in una sorta di delitto di attentato alla reputazione.

Siamo, dunque, di fronte all’ennesimo grossolano intervento sul Codice penale che, confondendo reati diversi, non risolve problemi ma ne crea di ulteriori.

Se l’intenzione del ministro Orlando fosse stata quella di tutelare la privacy, invece di creare un clone imperfetto della diffamazione e di inserirlo a forza nella parte del Codice penale realtiva all’inviolabilità del domicilio, egli avrebbe potuto semplicemente modificare l’articolo 615 bis del Codice penale (Chiunque mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni) chiarendo che la norma si applica anche ai fatti commessi “fra presenti” (cosa che la giurisprudenza, oggi, esclude).

In questo modo, ferme le sanzioni per chi offende la reputazione altrui a prescindere dal modo, ci sarebbe stata anche una tutela rafforzata di ciò che accade nella sfera privatissima della persona.

Troppo semplice?

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