Facebook, continuano le bufere. Come se non bastassero i tre scandali esplosi, in sole 24 ore, qualche giorno fa, ora al centro un’altra società, ancora una volta collaboratrice di Facebook, con ogni possibilità di accesso ai dati personali degli utenti che ne consegue, è messa sotto accusa. Una denuncia che, naturalmente, non può far bene neppure al social di Zuckerberg.
Il Wall Street Journal, infatti, ha rivelato che la Crimson Hexagon – compagnia che fornisce social analysis per i Brand attraverso piattaforme di monitoraggio come Facebook e Twitter, ma anche Adidas, Samsung , GM, Walmart e General Mills, senza contare agenzie federali USA come la FEMA, il Dipartimento di Stato e la Sicurezza nazionale – potrebbe aver ricevuto dati cui non avrebbe dovuto avere accesso almeno in un caso a partire dal 2016. Mentre monitorava i post pubblici su Instagram, un disguido potrebbe aver rivelato post privati che non avrebbero dovuto essere resi disponibili. Dati e informazioni personali che, poi, sarebbero finiti nelle mani di un’organizzazione russa senza scopo di lucro – la Fondazione per lo sviluppo della società civile – con legami con il Cremlino. La connessione russa è delicata per Facebook, che l’anno scorso ha scoperto centinaia di falsi account risalenti a Mosca e che sono stati usati per influenzare le elezioni americane del 2016. Da marzo, infatti, Facebook sta verificando sviluppatori e fornitori di dati di terze parti a causa dei problemi sollevati da Cambridge Analytica, anch’essa con presunti legami con la Russia, per cui i dati su 87 milioni dei suoi utenti avrebbero influenzato le campagne politiche.
Un portavoce di Facebook si è affrettato a precisare: “Non permettiamo agli sviluppatori di costruire strumenti di sorveglianza usando le informazioni da Facebook o Instagram. Prendiamo sul serio queste accuse”. Al momento nessuna irregolarità sarebbe emersa: “Sulla base delle nostre indagini fino ad oggi, Crimson Hexagon non ha ottenuto nessuna informazione su Facebook o Instagram in modo inappropriato”. “Stiamo verificando le affermazioni su Crimson Hexagon per vedere se hanno violato qualcuna delle nostre politiche”, ha dichiarato in particolare Ime Archibong, VP Facebook delle partnership di prodotto. “Abbiamo la responsabilità di proteggere le informazioni delle persone”.
Se Zuckerberg non se la passa un granché bene – sarà per questo che sembra guardare a “nuovi orizzonti”, acquisendo 56.000 metri quadri di spazi per nuovi uffici a Londra, sufficienti per più di 6.000 postazioni di lavoro, e addirittura progettando di lanciare nello spazio un satellite Internet? – peggio stavolta va a Twitter. Dopo tanti proclami circa il ban di troll, estremisti, odiatori, account fake – al punto che, in effetti, molti avrebbero riscontrato negli ultimi giorni un sensibile calo di follower – ben tre tempeste, ancora una volta, arrivano a smontare i cinguettii dell’uccellino.
La prima, più lontana da noi ma non meno dirompente, poiché ha come teatro proprio l’America, è la notizia della decisione di Maggie Haberman, famosa giornalista del New York Times e corrispondente della Casa Bianca, di abbandonare la piattaforma e chiudere il proprio account: comunicata a tutta pagina oggi sulle colonne della celebre testata e ripresa da numerosi siti e magazine on-line. “Perché ho bisogno di ritirarmi da Twitter”, l’eloquente titolo del pezzo: “La cattiveria, la rabbia partigiana tossica e la disonestà intellettuale sono ai massimi livelli”. La Haberman, alias @ maggieNYT, esasperata da tempo, qualche giorno fa si è chiesta quale potesse essere la cosa peggiore che potesse accadere se se ne fosse allontanata. “Non c’era nulla che potessi pensare. E così poco dopo le 6 di domenica scorsa, l’ho fatto. Dopo quasi nove anni e 187.000 tweet, ho usato Twitter abbastanza per sapere che non funziona più bene per me. Twitter ha smesso di essere un luogo in cui ho potuto imparare cose che non sapevo, raccogliere informazioni che erano libere da errori o impegnarsi in una discussione ed essere ragionevolmente sicura che le critiche delle persone fossero in buona fede”, ha dichiarato, partendo da un tweet con la bellezza di 900 Retweet, 10900 «Like», 4100 risposte e 5000 persone che ne parlano.
“La cattiveria, la rabbia tossica partigiana, la disonestà intellettuale, le domande motivate e il sessismo sono ai massimi livelli. È un luogo in cui le persone arrabbiate vanno a sfamare la loro rabbia, dove il ventre molle del free speech è collerico al massimo livello”, ha scritto la reporter. Concludendo: “Twitter è ora un videogioco di rabbia per molti utenti”.
Qualche giorno dopo non è mancata la risposta di Jack Dorsey, cofondatore di Twitter. In una lunga serie di tweet, in cui ha analizzato quasi una per una le affermazioni della Haberman – in maniera molto sobria e quasi facendo mea culpa – @jack , riprendendo la frase “Twitter è un mezzo democratico – ognuno può avere una voce, sia che lavori per un giornale locale, una piccola emittente televisiva o uno dei più grandi giornali del mondo, o non nel mondo dei media. Il rovescio della medaglia è che tutti sono trattati come ugualmente esperti su vari argomenti”, ha chiosato: “Una delle aree più grandi in cui credo che possiamo aiutare. Aiutare a determinare quali siano le voci credibili per i vari argomenti in tempo reale è estremamente difficile, ma crediamo che sia possibile. Un mix di algoritmi e rete”. Ancora, quanto alla frase “C’è una discussione importante sul giornalismo che deve svolgersi, compreso il modo in cui tutti noi ci siamo esibiti durante la campagna 2016, ma Twitter non è il luogo in cui possa svilupparsi una discussione sfumata o ponderata”, la sua considerazione: “Questo è quello che vorremmo aggiustare di più. Fondamentalmente, dobbiamo concentrarci di più sulle dinamiche di conversazione all’interno di Twitter. Non abbiamo fatto abbastanza attenzione in maniera costante. Occorre una migliore organizzazione, maggiore capacità di contestualizzare, aiuto per identificare credibilità e affidabilità. Si tratta di un lavoro impegnativo e ci piacerebbe sentire i tuoi pensieri e le tue idee in merito”.
La Haberman, tra l’altro, sarebbe in buona compagnia. Purtroppo per Twitter, anche Dan Neil, un altro giornalista vincitore del premio Pulitzer autore di una recensione del Modello 3 di Tesla durante il fine settimana, parrebbe aver cancellato il proprio account Twitter dopo la pioggia di accuse giuntegli dalla rete, che lo additava come reo di essere troppo accogliente con Tesla.
Come si dice però, dulcis in fundo. Le altre due tempeste? Ancora peggiori. Nell’ordine, dopo i già ricordati proclami di maggio quanto al limitare la portata del «comportamento simile a troll» sulla piattaforma, e la recente promessa, giusto un paio di settimane fa, di eliminare i fake followers, viene ora fuori che la piattaforma potrebbe star tenendo un comportamento non così duro con i suoi “utenti più tossici” come, invece, aveva assicurato. Stando a un nuovo report di Gizmodo, Twitter non procederebbe cioè all’eliminazione diretta e definitiva degli utenti più controversi, ma si limiterebbe a farne scendere i tweet e i relativi account più in basso nel feed. Questo renderebbe certo più difficile farli trovare tra i risultati di ricerca, ma non eliminerebbe il problema. I criteri adottati, tra l’altro, sarebbero alquanto oscuri. Il nazionalista bianco Richard Spencer e i teorici della cospirazione di estrema destra come Laura Loomer e Mike Cernovich, promotore di Pizzagate – teoria cospirazionista divenuta virale durante le elezioni del 2016 – sembrerebbero essere stati influenzati da questi recenti cambiamenti nella ricerca, così come l’organizzatore del raduno Unite the Right della scorsa estate a Charlottesville e Paul Joseph Watson di Infowars, trasmissione apertamente complottista e sito di fake news. Al contempo, però, altri utenti con le stesse credenziali per essere declassati, come Alex Jones e il teorico della cospirazione Jack Posobiec, non sono minimamente toccati dai cambiamenti.
La domanda nasce spontanea: perché Alex Jones, il fondatore di Infowars, non è coinvolto dai mutamenti di ranking e Paul Joseph Watson, uno dei conduttori dello show, sì? Inoltre, perché il nuovo comportamento pare incidere sugli account di estrema destra attraverso la ricerca mobile, ma non sempre su quella desktop? E soprattutto perché lasciare comunque reperibili utenti che, stando alle dichiarazioni, avrebbero dovuto ricevere sanzioni peggiori?
Tutto questo, però, pare ancora nulla rispetto all’ultima bomba che giunge direttamente dall’Indonesia. «“Mi sentivo disgustato”: all’interno delle false fabbriche di account Twitter di Indonesia». Si tratta della drammatica testimonianza di Alex – nome di fantasia – un giovane social media manager «in guerra»: pedina di un silenzioso, invisibile, e proprio per questo tanto più pericoloso, nuovo esercito cibernetico, al centro di battaglie combattute a colpi di falsi account e fake news.
“Quando sei in guerra usi qualsiasi cosa disponibile per attaccare l’avversario”, dice Alex, “ma a volte mi sentivo disgustato da me stesso”. Alex afferma di essere stato uno degli oltre 20 membri di uno staff chiamato a pompare messaggi da falsi account di social media per supportare il governatore di Giacarta Basuki Tjahaja Purnama, noto come Ahok, mentre combatteva per la rielezione. “Ci hanno detto di avere cinque account Facebook, cinque account Twitter e uno Instagram”, ha dichiarato al Guardian. “Dovevamo tenerlo segreto. Dissero che era tempo di guerra e avevamo il compito di sorvegliare il campo di battaglia, senza far sapere a nessuno dove lavoravamo”. I membri della squadra di Alex – sostenitori di Ahok e studenti universitari, attirati dalla remunerazione lucrosa di circa $ 280 al mese – hanno detto di postare da 60 a 120 volte al giorno sui loro falsi account Twitter, e alcune volte ogni giorno su Facebook. Alex ha detto che il suo team di 20 persone, ognuna con 11 account di social media, avrebbe generato fino a 2.400 post su Twitter al giorno. “Non volevano che gli account fossero anonimi, quindi ci hanno chiesto di scattare foto per i profili, così li abbiamo presi da Google o, a volte, abbiamo usato le foto dei nostri amici o le foto da Facebook o da gruppi WhatsApp”, ha continuato. “Ci hanno anche incoraggiato a usare i conti di belle donne per attirare l’attenzione sul materiale; molti account erano così”.
Fortunatamente, viene voglia di dire, Ahok ha perso le elezioni ed è finito in prigione. Perciò, sostiene Alex, non può essere sicuro di quanto fosse efficace la sua squadra. Al contrario Ulin Yusron, un portavoce della squadra, ha detto che la campagna è stata molto dura. “L’uso di calunnie, odio e bufale è stato enorme”, ha detto. “Naturalmente, ci siamo fortificati con le truppe di supporto anche nei social media. Non è qualcosa di nuovo in politica. Quando tutti parlano della stessa cosa, si può pensare che forse è vero, forse c’è qualche merito. È lì che risiede l’impatto”.
La guerra è guerra: uguale, ugualmente devastante, con le stesse regole. Ovunque: anche in questo, tutto il mondo è paese.