CYBERCRIME

Digital Crime. ‘Presunzione di colpevolezza’ per il cyber indagato

di Paolo Galdieri, Avvocato, Docente di Informatica giuridica, LUISS di Roma |

Il cyber indagato finisce spesso nei giornali ancor prima che inizi l’indagine vera e propria, con danni e conseguenze facilmente immaginabili.

La rubrica Digital Crime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

 

 

Da anni ci si è resi conto della pericolosità delle tecnologie dell’informazione e della possibilità attraverso di esse di commettere delitti di qualsiasi tipo.

In nome di tale “scoperta” il legislatore, seppur in ritardo rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea ,  è intervenuto , predisponendo un apparato normativo in grado di contrastare efficacemente la c.d. criminalità informatica.

Ultimamente  massima attenzione è prestata ai temi “caldi”, quali il terrorismo e la pedofilia, con interventi legislativi  volti a contrastare l’impiego della rete da parte dei terroristi e di coloro che abusano o sfruttano sessualmente il minore.

Parallelamente si discute in ordine alla possibilità di rivedere “in chiave tecnologica” la responsabilità del direttore di una testa e di introdurre disposizioni specifiche per quanto concerne gli atti persecutori realizzati a danno di minori, c.d. cyberbullismo.

Dal canto suo, la giurisprudenza  sta fissando importanti punti fermi, dipanando, la dove possibile, i dubbi interpretativi  sollevati, inevitabilmente , dalle nuove condotte delittuose.

Sempre più frequenti sono gli incontri dedicati al tema della sicurezza in rete dove, anche alla luce delle indicazioni dell’Unione europea e di altri organismi internazionali, si tende, da un lato, a sottolineare l’esigenza di sacrificare la riservatezza del singolo a favore della sicurezza della collettività,  dall’altro,  ad evidenziare  una pericolosità maggiore dei reati digitali rispetto a quelli realizzati off line.  In ossequio a tale ultimo convincimento, sono stati introdotti aggravamenti di pena per taluni comportamenti illeciti  commessi attraverso le tecnologie.

Senza entrare nel merito delle singole scelte operate dal legislatore, e delle specifiche prese di posizioni giurisprudenziali, un dato che emerge, meritevole di riflessione, è quello relativo ad una sorta di disinteresse o comunque sottovalutazione del tema della tutela dell’indagato.

Negli incontri a livello nazionale ed internazionale si enfatizzano le operazioni di polizia nella rete, si snocciolano dati in ordine ai procedimenti aperti , si sottolineano i risultati ottenuti attraverso le modifiche apportate al codice penale e di procedura penale.

Poca attenzione, come detto, viene, tuttavia, prestata al vero protagonista della vicenda giudiziaria  ovvero al soggetto sottoposto ad indagine.

Il tema è delicato ed al contempo di estremo interesse. Delicato, perché ogni qualvolta una persona viene sottoposta ad indagini subisce un trauma personale, che si estende alle sue relazioni interpersonali, ed un danno di immagine, contesto sociale,lavorativo, ecc. , a prescindere dall’esito del processo. Di estremo interesse,  perché le indagini informatiche presentano delle peculiarità che si ripercuotono inevitabilmente sull’indagato e le sue  garanzie.

Sotto tale punto di vista  è, in primo luogo,  agevole rilevare come molti reati informatici presentano appeal verso l’opinione pubblica per il contesto, la rete, all’interno del quale vengono realizzati. Tale fascino  dipende dal fatto che alcuni reati vengono visti come delitti”puliti”, white collar crime, realizzati da giovani o giovanissimi “genietti”della tastiera. In altri casi l’attenzione massima dipende dal pericolo sociale che, secondo percezione comune, talune condotte, pensiamo a quelle riconducibili al terrorismo ed alla pedofilia, esprimerebbero laddove commesse attraverso le tecnologie. Conseguenza di tutto ciò, a differenza di quanto accade per i reati tradizionali, è che il cyber indagato finisce spesso nei giornali ancor prima che inizi l’indagine vera e propria, con danni e conseguenze  facilmente immaginabili.

In secondo luogo, ed è forse questo l’aspetto centrale del problema, di regola la natura del reato, tecnologica,   impone verifiche particolarmente invasive della sfera privata e, soprattutto, capaci di portare un risultato “anticipato”rispetto all’eventuale processo. Quanto al primo profilo è innegabile che in molti casi la necessità di indagare su contesti o strumenti  particolari( internet, social network, email , ecc.)  determini una  lettura a trecento sessanta gradi della vita privata dell’indagato, molte volte inutile  ai fini investigativi. Quanto al secondo aspetto, è indiscutibile  che nei procedimenti e nei processi aventi ad oggetto digital crimes le conclusioni di carattere tecnico influenzano irrimediabilmente le decisioni dell’autorità giudiziaria- il pubblico ministero nella prima fase, il giudicante nella seconda-,  con la conseguenza che spesso la sorte di un individuo è  “segnata”ancor prima che il processo abbia inizio.

Se di regola, infatti, nel processo accusatorio, quale è quello previsto nel nostro ordinamento vigente, la prova si forma in dibattimento,  con le necessarie garanzie del contraddittorio, rispetto al cyber indagato, sovente la prova, o meglio l’idea sull’innocenza o colpevolezza, si matura nella fase delle indagini, attraverso la consulenza disposta dal pubblico ministero. Ciò può determinare un convincimento “pericoloso”, perché fortemente condizionato, tale da stravolgere un principio cardine dell’ordinamento penale quale è quello della presunzione di innocenza.

Per evitare ciò serve innanzitutto una maggiore preparazione tecnica da parte dell’autorità giudiziaria, già migliorata rispetto al recente passato, in modo da giungere a decisioni non facilmente condizionali.

Servono, altresì, indagini sempre più mirate, così da evitare indagini “a strascico” capaci di coinvolgere tutto e tutti.

Serve, infine, la predisposizione di protocolli unanimemente condivisi, così da evitare pronunce  eterogenee e discordanti.

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