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Digital Crime. Disobbedienza civile elettronica e cyberterrorismo

Cybercrime

Dal 7 al 10 ottobre si terra a Napoli una serie di incontri sul tema “Del pensare libero: dissensi, disobbedienze e democrazie”. In tale ambito è prevista una tavola rotonda, alla quale prenderò parte, sulla “Disobbedienza civile elettronica”.

Il tema, estremamente complesso, riveste profili di interresse, sia di carattere generale, che più specificatamente penale.

Le tecnologie dell’informazione, proprio per le loro potenzialità, rappresentano lo strumento ideale per manifestare liberamente il pensiero e, quindi, inevitabilmente anche per esprimere  dissenso rispetto all’idea dominante o alla regola imposta. Da  anni gruppi ed associazioni utilizzano le risorse informatiche per campagne di informazione aventi fini differenti( segnalare abusi, malgoverni, forme di repressione), così come anche per raccogliere consenso rispetto a determinate tematiche.

La necessità di far conoscere il proprio pensiero, o dissenso, si traduce nel digitale in condotte di vario tipo,  pensiamo, tra l’altro, ai c.d. netstrikes (cortei telematici o sit in virtuali), che consistono nella connessione simultanea e ripetuta di un numero considerevole di utenti internet ad un determinato sito per renderlo inutilizzabile almeno per la durata della mobilitazione, provocando un interruzione del servizio. Obiettivo primario di tale forma di protesta è quello di attirare l’attenzione circa una specifica problematica, ad esempio la violazione dei diritti umani nel proprio paese o altra parte del mondo. Stesse finalità vengono perseguite, talvolta, attraverso il c.d. dirottamento digitale, ovvero pratica che porta a dirottare l’utente, che sta facendo una determinata ricerca, verso siti che contengono contenuti antagonisti all’argomento richiesto.

Se tali forme di lotta politica e manifestazione del dissenso si limitano ad utilizzare le nuove tecnologie, essendo animate da un sentire che trae origine nel mondo reale, ad esempio per combattere abusi dei diritti umani, altre, invece, si caratterizzano per essere nate proprio a seguito di una riflessione sulla società caratterizzata dalle tecnologie dell’informazione ove, per alcuni si nascondono insidie per l’espletamento dei diritti fondamentali e dove si avverte  il rischio del formarsi di centri di potere politico ed economico. In quest’ambito si collocano le iniziative di alcune associazioni, quali ad esempio l’Electronic Frontier Foundation, che affermano la necessità di una ridefinizione degli aspetti della libertà civile, determinata dal nuovo contesto digitale, e che a tal fine svolgono opera di sensibilizzazione negli ambienti politici, fornendo supporto nelle controversie giudiziarie, ogni qualvolta l’uso delle tecnologie coinvolge diritti inviolabili dell’uomo. In tale direzione si muovono anche le associazioni contrarie al copyright ed a favore di una distribuzione del sapere e conoscenza liberi.

A ben vedere,  visione simile è riscontrabile anche nella azioni degli hackers, almeno fino a qualche anno fa, considerato che molte delle condotte da loro poste in essere hanno quale fine dichiarato quello di contrastare il c.d. potere informatico esercitato “da pochi su molti”. I principi dell’etica hacker sono fissati in modo chiaro nel libro Hackers. Heroes of the Computer Revolution”  di Steven Levy del 1984, dove tra l’altro si afferma che l’informazione deve essere libera, così come libero deve essere l’accesso ai sistemi. Principi questi ripresi nella dichiarazione programmatica finale, presentata ad Amsterdam nella festa galattica dell’89, in cui si ribadisce che lo scambio dell’informazione deve essere libero, in quanto elemento essenziale del diritto di libertà, così come anche non devono esserci vincoli (politici, economici o tecnici), che impediscono l’uso delle tecnologie dell’informazione a tutti i consociati.

Tale ideologia ha portato a condotte quali l’illecita duplicazione e condivisione di materiale protetto da copyright , accessi abusivi a reti e sistemi informatici, pubblici e privati, così come al danneggiamento degli stessi.

La complessità del tema è altresì dimostrata dal fatto che spesso si operano ulteriori distinzioni tra hacktivism e disobbedienza civile elettronica. In entrambi  si registra un utilizzo non convenzionale del computer, finalizzato al perseguimento di obiettivi politici e culturali, solo che nel primo caso predomina l’esaltazione dell’agire individuale, favorita dal fatto che le tecnologie amplificano le potenzialità del singolo, mentre nel secondo predomina il carattere di atto collettivo. Così come anche si tende a distinguere tra hackers “buoni” e “cattivi”(c.d. crackers), a seconda della volontà distruttiva manifestata.  Tale tema ha, invero, nel tempo perso gran parte del suo interesse, atteso che sempre meno sono le azioni a contenuto libertario, avendo le stesse lasciato il posto a condotte direttamente rivolte al perseguimento di interessi economici e , quindi, di matrice più delinquenziale che “politica”.

In dottrina c’è poi chi distingue tra atti di attivismo on line non violenti e legali, atti  hacktivism, intenzionalmente violenti, che usualmente non cagionano danni e possono, quindi, essere pure leciti, atti di cyberterrorismo, violenti, che cagionano danni e costituiscono reato.

A prescindere dalle su accennate distinzioni, non sempre utili alla comprensione del problema e corrette sul piano giuridico, è possibile tuttavia fissare alcuni punti fermi.

In primo luogo non tutte le regole disposte dai legislatori vengono percepite come giuste dai consociati e questo spinge a forme di dissenso, che talvolta possono sfociare in condotte illegali realizzate attraverso le tecnologie.

Inoltre, al di là delle motivazioni che sono alla base di una determinata condotta, non c’è dubbio che la stessa costituisca reato ogni qualvolta venga considerata tale dalla norma penale.

Infine, considerato che le condotte che esprimono un dissenso politico spesso si pongono in contrasto con l’interesse dello Stato, sovente risulta difficile distinguere tra forme di hacktivism, disobbedienza civile e cyberterrorismo, come dimostrato dal dibattito che è seguito alle recenti operazioni contro soggetti riconducibili ad anonymous.

Ciò detto, non si può fare a meno di osservare che laddove si registra un ampio malcontento di fronte a scelte legislative o governative, piuttosto che limitarsi a procedere penalmente contro gli autori di determinate condotte, inevitabile quando si registra una violazione di legge, occorrerebbe anche interrogarsi sul perché di tale agire, specie se largamente condiviso, al fine di modificare la legislazione, ovviamente non solo penale. Ciò perché qualsiasi legge, anche la più repressiva, non sortirà mai gli effetti sperati se ritenuta ingiusta dalla collettività.

Il che non vuol dire che il legislatore debba accettare “il ricatto” di alcuni consociati, anche laddove rappresentassero la maggioranza, quanto che lo stesso possa ripensarci laddove si accorga che le istanze proposte attraverso forme di  dissenso digitale riguardino diritti riconosciuti come fondamentali dalla nostra Costituzione. In tal senso, ad esempio, riflessione accurata meriterebbero alcune leggi riferite al virtuale che, talvolta, non paiono frutto di una attenta riflessione sul contesto in cui si tende operare, quanto piuttosto, almeno apparentemente,  portatrici esclusivamente di interessi economici a discapito di altri di rango costituzionale.

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