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Digital Crime. Criminalità informatica: la responsabilità penale non basta, serve più testa dai cyber utenti

In ambito europeo linee guida fondamentali sono state tracciate con le Raccomandazioni 89/9 e (95) 13 e, successivamente, con la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica del 2001, mentre in ambito nazionale la gran parte dei reati informatici e gli aggiustamenti al codice di procedura penale sono stati previsti attraverso le leggi 547/93 e 48/08. Parallelamente vi sono stati interventi mirati per fenomeni specifici quali la pedofilia, anche telematica (l.269/98, l..38/06, l. 172/2012) ed il terrorismo internazionale, pure quando realizzato nel cyber space (l.  .438/2001, l.  43/15).

Di recente poi, grazie alla l. 48/08, sono stati disciplinati importanti mezzi di ricerca della prova, quali il sequestro, l’ispezione e la perquisizione informatica, che consentono agli organi inquirenti di ottenere senza dubbio migliori risultati.

Ciò detto, rimangono in piedi alcuni problemi da risolvere.

Non vi sono, ancora, protocolli universalmente riconosciuti in ordine all’acquisizione, conservazione ed analisi degli elementi di prova digitale, il ché offre “vie di fuga” alla difesa, potendosi sollevare dubbi sull’affidabilità delle indagini svolte.

Inoltre, trattandosi di reati per loro natura transnazionali, occorre potenziare la cooperazione da parte delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria, specie rispetto a Paesi quali la Russia, rispetto ai quali diventa impossibile avanzare una rogatoria o scambiare informazioni investigative.

Infine, occorre una seria riflessione sugli obblighi dei colossi della comunicazione digitale, i quali non possono più chiamarsi fuori per quello che accade tramite di essi, anche in considerazione dei loro cospicui profitti, che consentirebbero l’utilizzo di tecniche di monitoraggio sul materiale veicolato più efficaci di quelle attuali.

Se questo è lo stato dell’arte dal punto di vista normativo, sotto altro profilo rileva la necessità di soffermarsi anche sui doveri dei cittadini digitali e non solo sui loro diritti.

Reati quali la diffamazione online, l’illecito trattamento del dato, le truffe e le  frodi informatiche, sono estremamente diffusi  proprio grazie alla disinvoltura con la quale ci si manifesta in rete o al fatto che siamo noi stessi a fornire  le nostre informazioni.

Delitti di una certa gravità, quali il cyber stalking e la pornografia minorile, sono sovente agevolati dalla poca attenzione con la quale entriamo in contatto con le persone in rete e dalle informazioni che postiamo per strappare nei social qualche like, pensiamo a coloro che inseriscono foto dei figli a tenera età, che vengono poi prese, manipolate e diffuse sotto forma di pedopornografia virtuale.

Allora il tema centrale è che anche la norma scritta nel migliore dei modi non può sortire l’effetto deterrente sperato se è la stessa vittima a cooperare, seppur inconsapevolmente, con il suo “carnefice”.

Ecco perché sforzo importante è rappresentato dalla recente legge sul cyber bullismo, da alcuni criticata, la quale, piuttosto che prevedere sanzioni penali, mira a responsabilizzare le famiglie e l’ambito scolastico, proprio nell’idea che certi reati si prevengano più “lavorando sulle teste”, che minacciando pene detentive.

Sempre nell’ottica di un contrasto alla cyber delinquenza, non fondato esclusivamente su una delega in bianco al legislatore penale, va letta la nuova impostazione prescelta in ambito europeo attraverso la c.d. direttiva Nis (direttiva UE 2016/1148), che impone ai Paesi dell’Unione di prevedere obblighi comuni di sicurezza per gli operatori di servizi essenziali e per i fornitori di servizi digitali.

In conclusione, se è giusto pretendere tutela dall’ordinamento giuridico, tutela che allo stato peraltro c’e’, occorre ricordarsi che dietro ogni diritto vi è in capo a noi un dovere,  il cui mancato rispetto ci si rivolge inevitabilmente contro.

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