Questo articolo fa parte di una serie di scritti su come difendersi nel processo rispetto alle contestazioni di determinati crimini digitali. Per consultare tutti gli articoli dedicati al tema clicca qui.
Quando ci si sente offesi per uno scritto pubblicato in rete diversi possono essere i dubbi in ordine al contenuto della querela da sporgere.
Il primo riguarda la norma penale cui far riferimento, non essendo espressamente previsto nel nostro codice penale il delitto di diffamazione telematica.
Riguardo a tale aspetto è pacifica l’operatività della disposizione relativa al delitto di diffamazione aggravata per uso del “mezzo di pubblicità”, art.595 c.p., III comma (Cass., Sez. V, sent. n.44980/2012), sussistente anche nel caso in cui l’offesa sia “postata” su una bacheca Facebook (Cass., Sez. I, sent.24431/015). Di regola l’amministratore di un gruppo non risponderà, invece, del reato di diffamazione per i commenti di terzi, a meno che non li abbia approvati espressamente, così come sarà punibile qualora abbia scientemente omesso di cancellare, anche a posteriori, le frasi diffamatorie a lui segnalate (Cass. , Sez. V, sent. n.54946/2016; Tribunale di Vallo della Lucania, Gip, sentenza 24 febbraio 2016, n.22).
Tendenzialmente da escludere la responsabilità del gestore di un blog in quanto non equiparabile al direttore di una testata giornalistica e quindi privo di obblighi giuridici di impedire la commissione di reati (Cass., Sez. IV, sent..n.17609/2012; Cass., Sez. IV, sent. n.46856/2004; Cass., Sez.,IV, sent. n.1484/2003; favorevole alla responsabilità del blogger Tribunale di Varese, 22 febbraio 2013 e Tribunale di Aosta, 26 maggio 2006 ), così come anche di colui che si limiti ad animare un sito-forum in assenza di elementi che denotino la sua coscienza e volontà nell’attività diffamatoria posta in essere da altri (Cass. , Sez. V, sent.n. 16751/2018).
Altro dilemma è quello dell’individuazione del luogo del commesso reato, da cui ricavare l’autorità giudiziaria competente per territorio.
In ordine a tale tema è stato da tempo chiarito come il delitto di diffamazione, anche via Internet, sia un reato di evento ed in quanto tale la competenza deve essere individuata nel luogo in cui il reato è stato consumato ovvero dove i terzi percepiscono la espressione ingiuriosa (Cass. Sez.I, sent. n.8513/2009; Cass., Sez. V, sent.234528/2006). Quando non sia possibile, tuttavia, adottare tale criterio e sia invece possibile individuare il luogo in remoto in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato, tale criterio di collegamento in quanto prioritario rispetto a quello di cui all’art.9 c.p.p. comma 2 ( che attribuisce la competenza al giudice della residenza,dimora o domicilio dell’imputato), deve prevalere su quest’ultimo, cosicché la competenza risulta individuabile con riferimento al luogo fisico ove viene effettuato l’accesso alla rete per il caricamento dei dati sul server (Cass., Sez.V , sent. n.31677/2015). Solo in ultima analisi, quindi, la competenza andrà attribuita al Giudice della residenza dell’imputato, quando, appunto, non sia possibile individuare il luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione (Cass., Sez. I, sent.n.8513/2009).
Quanto alla competenza per materia, la stessa appartiene al Tribunale, e non al Giudice di Pace, qualora la condotta consista nella pubblicazione di un commento diffamatorio in rete (Cass., Sez.I, sent. 16712/2014).
Le perplessità più grandi, tuttavia, riguardano il documento da allegare in querela e precisamente il valore probatorio della “stampata” dello scritto diffamatorio. Problema che si pone considerato che l’eventuale processo scaturito dalla querela si celebrerà a distanza di anni, quando il sito dove era presente il contenuto potrebbe non esserci più o lo stesso contenuto sarà stato comunque rimosso (si veda a tal riguardo Cass., Sez.V, sent.34406/2015, secondo la quale l’accertamento della diffamazione mediante Internet può avvenire anche in mera via logica partendo da una semplice “stampata”, anche senza il ricorso a tecniche di indagini informatiche, sentenza basata sostanzialmente sull’individuazione tramite IP e sul fatto che il computer era ad uso praticamente esclusivo dell’imputato ).
Per evitare contestazioni, tuttavia, può essere utile indicare nell’atto persone che hanno visto ad una determinata ora, ed in quello specifico sito, il messaggio diffamatorio, comunque allegato alla querela, o allegare il verbale in cui un pubblico ufficiale, un notaio o un appartenente alle forze dell’ordine, attesti di essersi collegato e di aver preso visione di quel contenuto.
Tale modo di procedere consentirebbe anche di contrastare quella giurisprudenza, a dir il vero isolata, secondo cui la diffamazione via Internet non può essere presunta, in quanto, a differenza della televisione e della radio, il messaggio inserito non è detto che venga letto, con la conseguenza che, in assenza di prova di percezione da parte di terzi si risponderebbe di tentata diffamazione (Tribunale di Teramo, sent. 30 gennaio 2002 n.112).